Si scrive acqua, si legge democrazia. Un adagio a suo modo famoso, dal momento che contraddistinse la stagione del referendum sull’acqua, vinto, come noto, dai cittadini che in maggioranza votarono per l’acqua pubblica, vale a dire per un servizio pubblico della risorsa idrica. Un adagio che tuttavia, come spiega il professor Antonio Bodini, docente di pianificazione ambientale dell’Università di Parma, in occasione di un convegno su acqua e tariffe idriche organizzato da Federconsumatori a Firenze, ben si presta a diventare la chiave per lo studio delle modalità di gestione dei servizi ai cittadini, che per lo più riguardano i cosiddetti beni comuni.
Non è una metafora fantasiosa, insomma. Ci sono delle criticità, come spiega Bodini, nel passaggio dal pubblico al privato, che non non lo rendono un semplice passaggio da una pratica di gestione all’altra. Perché? I motivi sono svariati, ma sostanzialmente, dice Bodini, si possono riassumere in 4 punti: la privatizzazione come risposta alla crisi degli Stati moderni; la pesantezza di un apparato burocratico sempre più pachidermico e difficilmente gestibile che induce come conseguenza a una richiesta di privatizzazione da parte dei cittadini; la diffusione del credo neoliberista che con Thatcher e Reagan ha avuto una spinta decisiva; la diffusione dell’idea che il libero mercato sia in grado di occuparsi dei servizi al posto dello Stato e che non ci sia differenza, l’importante è che il sistema sia efficiente. Anzi, grazie alla competizione, la convinzione che viene diffusa è che il privato possa fare ciò che fa il pubblico, ma lo faccia meglio e a costi inferiori.
Ma in cosa consiste questa sorta di governance privata e quali sono i pericoli, se ci sono? La percezione dello spostamento della gestione dei servizi dalla sfera pubblica a quella privata, ovvero la questione dei servizi pubblici che stanno diventando privati, dice Bodini, non è per niente sul tavolo del dibattito pubblico. Fra i motivi per cui ciò non avviene, “il fatto che la questione venga intesa come puramente economica, di natura tecnico-scientifica per cui non esistono nodi di legittimità o di diritto. Ci si chiede solo, nell’invocare il passaggio dal pubblico al privato, se privatizzare certe funzioni porti benefici in termini di efficienza, riduzione dei costi e miglioramento del servizio. Questa è l’unica prerogativa che si ritiene valida affinché si decida fra gestione pubblica o privata”.
A questo punto occorre chiedersi se le due gestioni siano intercambiabili davvero senza nessun costo, ma solo, al limite, con un miglioramento dovuto al libero mercato e alla sua manina invisibile. Ebbene, dice Bodini, richiamandosi a un recente saggio di Chiara Cordelli (filosofa, professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Chicago) pubblicato da Mondadori dal titolo Privatocrazia, “l’amministrazione del pubblico tramite il privato compromette le stesse ragioni per cui uno stato democratico è chiamato ad esistere e ne elimina la legittimità dall’interno”. Perché? Perché trasferendo poteri e responsabilità, vengono meno tre cose fondamentali: “l’autogoverno democratico, il criterio della rappresentanza e l’indipendenza reciproca”, fra pubblico e privato. Per quanto riguarda la prima condizione, ovvero l’autogoverno, Bodini ricorda che è a sua volta suddiviso in tre aspetti decisivi, il controllo direttivo, la vigilanza e le pari opportunità.
Il passaggio dal pubblico al privato prende corpo, nel suo reale costo, qualora si indaghi in che modo influenzi queste tre componenti dell’autogoverno, irrinunciabile per lo stato democratico. “Appaltare una serie di funzioni ad attori privati è appetibile per il risparmio che teoricamente genera e per compensare la mancanza di determinate competenze in ambito pubblico, cosa possibile; ma se il governo non ha la capacità di svolgere direttamente certe funzioni, non avrà neanche la capacità di controllare, coordinare, pianificare e supervisionare coloro a cui tali funzioni sono delegate; più il governo, o meglio i suoi organi operativi ovvero gli enti pubblici, privatizzano, più il suo potere di azione si disperde e controllare gli attori privati diventa più difficile; meno i funzionari pubblici eseguono direttamente determinate funzioni, più perdono la capacità di eseguirle, ovvero si perde il know-how all’interno della PA in favore ovviamente di quegli attori che il know-how ce l’hanno e possono incrementarne l’efficienza”. Il risultato è che “quelli che governano diventano sempre più dipendenti dai privati, che risultano sempre più necessari piuttosto che ausiliari e la catena delle esternalizzazioni diventa sempre più simile a un circolo vizioso, in cui ogni delega rende quella successiva sempre più necessaria”, con una fatale perdita di controllo da parte del pubblico (che potremmo anche immaginare decisore politico, almeno nel ruolo di indirizzo, rappresentanza e controllo).
Più è lunga e confusa la catena di esternalizzazioni, più è difficile scoprire cosa stia succedendo nel processo di amministrazione, con conseguente allentamento delle capacità di vigilanza. Se il meccanismo della privatizzazione come descritto conduce alla perdita di controllo, c’è anche un’altra ricaduta, pesante, che riguarda le pari opportunità, altro cardine dello stato democratico. “La privatizzazione altera la distribuzione delle opportunità di influenza politica – dice Bodini – un’alterazione che è stata messa nero su bianco dal rapporto Lobbying in Europe, che ha fatto emergere quali sono in percentuale, al Parlamento europeo, i funzionari privati delle lobbies che agiscono nei confronti dei rappresentanti della politica europea”, sottolineando il fatto che naturalmente più aumenta la dipendenza dei rappresentanti politici nei confronti dei rappresentanti delle lobbies private, più le politiche dei governi verranno forzate verso i desiderata di queste ultime. Tirando le fila, la privatizzazione per sua struttura elimina i principi di eguaglianza e di accesso all’influenza politica. I cittadini diventano fatalmente diseguali, non avendo gli uni la stessa possibilità di incidere sulle decisioni politiche rispetto agli altri, invitati invece, per la loro appartenenza a lobbies private potenti e significative, al tavolo dove siedono i decisori politici.
La privatizzazione delle funzioni pubbliche dal punto di vista del funzionamento dei principi democratici è illegittima, perché “un governo non può venire meno a qualcosa cui esso non ha il diritto di rinunciare, ovvero l’esercizio del diritto collettivo di autogoverno, o, se si vuole, all’autogoverno da parte della collettività. Nel momento in cui si rompe questo legame fra la collettività e i suoi rappresentanti perché ci sono politiche di gestione che non possono essere democratizzate, la cosa pubblica viene meno ad alcuni suoi principi fondamentali”.
Cosa si può fare? “Ogni cittadino – dice Bodini – ha il dovere e il diritto di mantenere le condizioni dell’autogoverno attraverso la vigilanza civica sui meccanismi di rappresentanza. E’ importante, nel caso specifico dell’acqua, perché quando si aprì il dibattito pubblico che portò al referendum, il Forum per l’acqua parlava chiaramente di una gestione pubblica e partecipata della risorsa idrica e del servizio idrico. E’ chiaro che si tratta di una tematica affascinante, che pone però alcune riflessioni importanti nell’ambito dell’efficienza ed efficacia del servizio”.
Tuttavia, il principio rimane: quando le istituzioni pubbliche “perdono la possibilità di governare i servizi, c’è una minore disposizione dei cittadini a vigilare sull’operato del governo, e diminuisce e cresce l’apatia civica. I cittadini percepiscono solo un sistema di mercato liberamente funzionante e quindi non sanno più a chi rivolgersi per eventuali problematiche legate alla gestione dei servizi pubblici”. In altre parole, ciò che appare è che tutto sembra affidato alle leggi di mercato, e che i rappresentanti politici eletti dal popolo perdano la possibilità di intervenire in queste dinamiche. Perciò si può affermare che la privatizzazione contribuisca al disimpegno civico, favorendo l’apatia: un aspetto importante, che conduce all’astensionismo elettorale. Il cittadino non ha più la percezione di poter incidere attivamente, perché è tutto definito da qualcun altro, in particolare il mercato, che d’altro canto è costituito da privati che hanno interesse nella gestione pubblica.
La questione risulta più complessa se si prende in esame il principio della responsabilità condivisa, ” un nuovo modello di privatizzazione in cui pubblico e privato sono chiamati a condividere la responsabilità di assicurare condizioni materiali e di giustizia sociale, ma in questo caso la legittimità viene concepita come una questione di risultati e di efficacia”. In base a quest’ultimo punto, la natura pubblica o privata dell’organizzazione non ha più valore intrinseco. Ciò che importa è la capacità di soddisfare al meglio un certo bisogno in ordine all’efficacia.
Da ciò deriva una conseguenza significativa, come dice Bodini: l’autonomia gestionale del gestore privato diventa un vero e proprio potere politico, quello di determinare chi ha diritto a che cosa. Emblematico il caso, ricordato dal professore, del gestore privato cui si rivolse l’amministrazione Clinton per recuperare al lavoro le fasce più emarginate dei disoccupati statunitensi. I paletti entro cui doveva muoversi questa società privata erano due: garantire una certa percentuale di profitto e una certa percentuale di nuovi occupati. “Il risultato fu che, per soddisfare i due vincoli dati, la società orientò l’attività degli assistenti sociali verso le persone che erano più facilmente occupabili, e che davano meno problemi. Di conseguenza, un’intera categoria di queste persone, difficilmente occupabili, venne esclusa, dal momento che non si sarebbe riusciti, agendo in altro modo, a raggiungere la percentuale di profitto e di occupati data”. A ogni buon conto, in questo caso era il gestore privato a decidere chi poteva tornare ad essere occupato e chi no. In base a questo tipo di ragionamento, si può prevedere che potrebbero esserci gestioni private che decidono ad esempio chi deve essere curato (o chi ha la precedenza nell’essere curato) e chi no, chi potrà accedere all’istruzione migliore e chi no. Scelte che se a volte possono essere obbligate (dati dei parametri) altre volte possono diventare espressione di un vero e proprio potere politico privato di scelta delle persone, in base a criteri di efficienza o profitto, o di entrambi.
In conclusione, dice Bodini, “la carrellata di tutti questi profili aiuta a comprendere come il passare dal pubblico al privato in maniera indiscriminata comporti la perdita di alcuni degli aspetti basilari della nostra democrazia”.