“Se ‘t voo scampér dimondi e séimper sàn, cunsoma a ogni pàst dél lambròsch arzan.”
Il vecchio detto proverbiale – che tradotto significa “se vuoi campare molto e sempre sano, consuma ad ogni pasto del lambrusco reggiano” – esprime in maniera significativa l’importanza del lambrusco nella nostra tradizione enogastronomica. Ma resta il dubbio che tanti reggiani non si siano resi conto che il nostro lambrusco negli anni è diventato sempre più raffinato.
La sua comparsa nelle nostre tavole risale addirittura al II secolo a.C., quando Catone descrisse nel “De agri cultura” quel vino dallo spirito frizzante, “la “vitis labrusca”, che nasce e cresce in modo spontaneo e i cui lunghi tralci s’intrecciano con le chiome degli olmi, degli aceri e dei pioppi”. Eppure dai tempi del noto censore romano ad oggi, il nostro vino si è affinato ed è cresciuto notevolmente: la vigna che cresceva spontanea è stata sostituita da vitigni selezionati e monitorati con grande attenzione (Sorbara, Maestri, Marani, Montericco, Salamino e Ancellotta per citare i più celebri).
Quello che invece è rimasto immutato nel tempo è la presenza del “lambro” sulle nostre tavole, che si è mantenuta costante a dispetto di un’offerta enologica che si è fatta sempre più importante o alle mode del momento. Tuttavia nella maggior parte dei casi – come ho avuto modo di constatare di persona nella mia Trattoria quando propongo ed elenco le diverse etichette presenti in cantina – i reggiani sembrano dare un’importanza relativa alla tipologia di lambrusco con il quale consumare il pasto. Eppure c’è lambrusco e lambrusco: da quello scuro e strutturato a quello più chiaro e di poco corpo, da quello ben armonizzato e fresco a quello fermentato in bottiglia, più tannico e terroso, dove è possibile gustare appieno i sentori di frutti rossi, frutti di bosco e muschio.
“Cun i caplétt, al léss e cun al ròst, ‘na butèglia ‘d lambrosch e t’ée a pòst” (Con i cappelletti, il lesso e con l’arrosto, una bottiglia di lambrusco e sei a posto).
Il lambrusco resta il vino più amato dai reggiani per diversi motivi: il primo è strettamente legato alle caratteristiche e alle tradizioni culinarie del nostro territorio. Da una parte infatti bisogna riconoscere che tanto i tortelli (verdi e zucca su tutti) e i cappelletti in brodo quanto le carni arrosto (soprattutto se grasse, come zamponi e cotechini) strizzano l’occhio al nostro “lambro”: in questi casi l’accostamento enogastronomico ne esce valorizzato in entrambe le componenti. Tuttavia, con la doverosa premessa che i palati non sono tutti uguali, la scelta di una tipologia di lambrusco incide in modo non indifferente nella resa di un pasto. Se dovessi gustare un primo piatto – che siano tortelli o cappelletti – consiglierei caldamente un lambrusco leggero e poco invadente, per non incorrere nel pericolo che il vino sovrasti la pietanza. Davanti a un secondo di arrosti di carne, invece opterei per un vino più strutturato, dal corpo medio e di colorazione più intensa.
Va anche detto però che a tavola non bisogna sottovalutare la componente emotiva, soprattutto quando ci si appresta a gustare quelle pietanze che ci accompagnano da quando siamo nati, quei sapori e quei profumi che ci permettono di viaggiare nel tempo e librarci nei fragranti ricordi famigliari che sono pronti a riaffiorare ad ogni contatto con quelle vivande. Alla luce di quanto detto, accade spesso che il “fattore qualitativo” passi in secondo piano, ossia che si preferisca rinunciare all’accostamento di un vino più congeniale da accompagnare al pasto per riuscire invece a riprodurre le atmosfere e le sensazioni provate in tempi passati.
“L’ée dmei bévren ‘na lata che pérdren ‘na goza” (E’ meglio berne una latta che perderne una goccia).
Dunque se in alcuni casi il consumatore è fidelizzato e poco propenso a smuoversi da una scelta precisa fatta in precedenza e ormai radicata di pasto in pasto, in altri invece ci si trova davanti al totale disinteresse verso quel tipo di lambrusco piuttosto che un altro: non ha importanza che la spuma sia vivace o evanescente, o che il colore sia rosato piuttosto che rosso rubino, o che all’olfatto possa variare dal fruttato al floreale…no, il versante qualitativo o la ricerca di un vino da pasto con determinate caratteristiche non hanno la minima importanza. Basta che sia frizzante, fresco e (soprattutto in questa casistica)….abbondante!
E questo (quale occasione migliore per ribadirlo) a volte lascia l’amaro in bocca.