Firenze – Dall’armistizio dell’8 settembre 1943 alla Liberazione del 25 aprile 1945 l’Italia si trovò per venti mesi divisa ed occupata: il Sud liberato da britannici e statunitensi e il Centro Nord occupato dai nazisti. Venti mesi di lotta partigiana ma anche di stragi nazifasciste sui civili, venti mesi in cui militari italiani (650 mila) dissero “no” a combattere nelle file tedesche e della Repubblica di Salò e che per questo, in dispregio alla Convenzione di Ginevra, furono imprigionati e costretti al lavoro coatto. Talvolta uccisi in modo sommario.
Quei venti mesi sono raccontati, con foto, documenti ma anche filmati che raccolgono ricordi e testimonianze dirette, nella mostra itinerante allestita sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica dallo Stato maggiore della Difesa e dalla Procura generale militare presso la Corte di appello, tenuta a battesimo lo scorso settembre a Roma, passata poi in Liguria e dal 29 luglio fino al prossimo 2 settembre visitabile a Palazzo Strozzi Sacrati in piazza del Duomo a Firenze, sede della presidenza della giunta regionale toscana.
L’accesso è gratuito, su appuntamento, dal lunedì al sabato dalle 10 alle 12.30 e nel pomeriggio da lunedì al venerdì dalle 14 alle 16.30: basta inviare una mail a mostresacratistrozzi@regione.toscana.it o telefonare allo 055.4385616 dalle 9 alle 13.
Si tratta di trentotto pannelli, diciassette schermi, interattivi in alcuni casi, dove si ripetono video e contributi multimediali, venti teche con documenti ed oggetti della vita quotidiana (la fondina di una pistola, un’uniforme, una bambola, una vestitino o un orologio con le lancette che fissano l’ora in cui il proprietario è morto). Un racconto concentrato in particolare sulle stragi nazifasciste che si succedettero durante la guerra di liberazione e i processi che si sono svolti, senza tacere i crimini commessi dagli italiani – prima dell’armistizio – all’estero.
Il valore della Memoria
La memoria serve a conoscere il passato, a ricordare ciò che è successo per omaggiare chi ha contribuito a costruire un mondo migliore, ma anche a ricordare per non cadere negli stessi errori ed orrori, spiega il presidente della Toscana, che si augura che soprattutto i giovani visitino la mostra.
Sui pannelli e gli schermi vivi di due diversi piani del palazzo storico al centro di Firenze si srotola così il ricordo, asciutto e senza infingimenti o omissioni, dei crimini di guerra commessi in Italia e all’estero sui militari italiani dopo l’armistizio (circa mille le vittime in Italia, 70 mila in Europa in un centinaio di episodi), ma anche dei crimini commessi sui civili italiani in terra straniera deportati per lavorare nelle fabbriche tedesche, sulla vergogna dei fascicoli per decenni insabbiati, sui civili stranieri vittime di crimini di guerra di cui furono colpevoli i militari italiani. Stragi a parte inverse: come in Grecia, a Domenikon in Tessaglia, quando il 16 febbraio 1943 furono uccisi 150 abitanti del posto in rappresaglia dell’uccisione di nove soldati italiani da parte dei partigiani greci. Nel 2012 undici militari italiani, tutti già deceduti, sono stati identificati dalla Procura tra i numerosi responsabili della strage. Altri episodi di brutalità e illegittimi si succedettero nei territori della Jugoslavia, dell’Albania e del Montenegro.
Le voci dei soldati deportati
“Tutto ciò non può durare a lungo, sarebbe orribile” scrive Corrado Capecchi sulle pagine ingiallite di un vecchio quaderno, diventate qualche anno un diario pubblicato dalla Regione Toscana. Una storia come tante altre di un soldato, un carabiniere ausiliario, fatto prigionierio in Albania dopo l’armistizio e deportato ed internato in un campo di lavoro nel nord-ovest della Germania: a Wietzendorf, tra Hannover e Braunschweig. Un memoriale ritrovato in soffitta dal figlio quando il padre era già morto, meno di otto anni fa. Un tuffo al cuore quel diario dove si parla della libertà, perduta e poi ritrovata, della libertà a cui molti avevano rinunciato per opportunismo, paura o indifferenza e in cui si racconta delle crudeltà e angherie subite. Nel 2002 Corrado scrisse anche al presidente della Repubblica Ciampi per raccontare le tante beffe subite dagli internati militari italiani (Imi): il silenzio patito fino al 1977, gli spiccioli tedeschi annunciati nel 2000 ma riconosciuti solo ai civili deportati. Si è spento con la consolazione di una medaglia d’onore annunciata ma che non ha fatto a tempo a vedere.
Patimenti e stragi rivivono anche grazie alla voce di Antonio Ceseri, un altro Imi, un soldato che disse “no” ai tedeschi. Per tanti anni, prima di morire, ha raccontato quei diciotto mesi di crudeltà e umiliazioni ai giovani toscani del Treno della memoria. Fu imprigionato a Treuenbriezen. All’arrivo dei russi che pressavano sul fronte orientale i tedeschi, fu condotto dalle SS assieme ad altri 130 prigionieri in una marcia forzata: ammassati in una fossa naturale furono mitragliati dall’alto. Solo in tre, salvati dallo scudo naturale di altri corpi, sopravvissero.
Massacri di innocenti
La mostra racconta anche i crimini di guerra commessi in Italia sulla popolazione civile. Tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945 si contano 5.872 stragi e 24.409 vittime (http://www.straginazifasciste.it/): 13 mila sono le persone in qualche modo coinvolte nella lotta partigiana, uccise per vendetta o rappresaglia, ammazzate (destino comune a molti partigiani) da inermi e una volta rese inoffensive. Non solo da mani tedesche, ma anche italiane. Uccise a colpi di fucile o di mitraglia, finite con un colpo alla nuca, annegate, bruciate, cannoneggiate o fatte esplodere. Stragi spesso accompagnate da stupri e violenze.
La Toscana è stata uno dei territori maggiormente colpiti: le stragi nazifasciste, concentrate soprattutto tra l’aprile e l’agosto del 1944, furono complessivamente più di ottocento e i morti tra i civili circa 4.500: daVallucciole, nel comune di Pratovecchio Stia, a Cavriglia nell’aretino, dal Padule di Fucecchio, nel fiorentino, a San Terenzo Monti e Vinca a Fivizzano a Massa Carrara o Civitella Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio. Luoghi diversi, identica la spirale di odio delirante.
L’urlo (e la speranza) di Sant’Anna
A Sant’Anna di Stazzema, teatro in Versilia il 12 agosto 1944 di una delle stragi più cruente che ci consumarono in Toscana (560 vittime in una sola mattina, 394 i corpi identificati), tedeschi e fascisti italiani uccisero Evelina, che quella mattina aveva le doglie del parto. Uccisero Genny, la madre che prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario (Marsili), scagliò lo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle; e lo salvò, anche se il piccolo rimase offeso dal fuoco in gran parte del suo corpicino. Uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati di risparmiare la sua gente. Uccisero più di un prete, come i dodici frati certosini uccisi meno di un mese più tardi all’interno della Certosa di Farneta a Lucca. Uccisero a Sant’Anna gli otto fratellini Tucci con la loro mamma. Poi, in quel luogo di morte e sterminio, nel 2000 è nato il Parco nazionale della pace.
Aveva dieci anni Enrico Pieri, scomparso a dicembre del 2021, quel giorno in cui i soldati del sedicesimo battaglione SS comandato dal maggiore Walter Reder, guidati da fascisti versiliesi, risalirono la valle e piombarono a Sant’Anna. La sua voce rivive in alcuni filmati della mostra. Enrico riuscì a sopravvivere, unico della famiglia. “Centrotrenta giovani che con la guerra nulla c’entravano furono trucidati sulla piazza davanti alla chiesa” ricordava qualche anno fa ai ragazzi toscani riuniti per il Giorno della memoria, come lo faceva ogni settimana a chiunque venisse a visitare il museo del paese. Odio, violenza e devastazione. Chiudersi in se stessi o covare rancore sarebbe stata la reazione più naturale. E sette anni più tardi Pieri infatti emigrò. “Ma arrivato in Svizzera – ripeteva – capii che non si doveva e non si poteva più odiare. Mi resi conto che eravamo tutti europei: figli di un’Europa nata proprio a Sant’Anna, a Marzabotto o nei campi di concentramento. Per questo sentii il dovere di superare il rancora e parlare di pace”. E trentadue anni più tardi tornò a vivere nel suo paese, dove i testimoni di quella strage, con il passare del tempo, sono sempre meno.
I processi
La mostra sulla stragi nazifasciste ospitata a Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze racconta anche la deportazione e l’internamento nei lager, la deportazione e il lavoro coatto e i processi: quelli internazionali e quelli italiani contro nazisti e collaborazionisti, quelli iniziati subito dopo la fine della guerra, quelli abortiti e congelati dalla Guerra fredda e da nuovi equilibri politici mondiali, quelli ripresi dopo il 1994, con la scoperta di centinaia di fascicoli archiviati nel 1960 dall’allora procuratore generale e chiusi in un armadio per oltre trent’anni.
Se cinquanta sono stati i processi celebrati in Italia dagli Alleati subito dopo la fine della guerra e quindici quelli istruiti in quello stesso periodo dai tribunali militari italiani, ben ventiquattro sono quelli che si aprono e svolgono dopo il ritrovamento dei 695 fascicoli chiusi nell’armadio diventato per tutti l’armadio della vergogna.
Sono cinque i processi celebrati subito dopo dopo quello a carico di Priebke per le Fosse Ardeatine a Roma negli anni Novanta. Ma i più importanti arrivano tra il 2003 e il 2008: Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto, San Terenzo e Vinca, Civitella Val di Chiana, Padule di Fucecchio, Falzano di Cortona, Stia, Vallelucciole, Monchio, Cervarolo e Mommio, Certo di Ferneta, San Polo di Arezzo, San Cesario sul Panaro, Casalecchio di Reno, Grotta Maona di Montecatini, Branzolino San Tomè, Borgo Ticino, Fragheto e Verghereto e Chiusa Pesio. Oltre al massacro più sanguinoso, quello di Cefalonia nel settembre 1943: l’ordine di Hitler fu di non fare prigionieri e tra i 3400 e i 5600 soldati italiani morirono, tra caduti in combattimento, navi affondate, sentenze e fucilazioni sommarie o rappresaglie condotte su soldati disarmati o che si erano arresi. Il processo si è chiuso nel 2013, con la condanna di un caporale per l’uccisione di un centinaio di ufficiali.
Nonostante il tempo trascorso, come recita il titolo della mostra – sessant’anni dopo e in qualche caso anche settanta – almeno giustizia è stata fatta. Se non in tutti, in molti casi.