A colloquio con l’autore, Gigi Paoli e il ritorno del giornalista Carlo Alberto Marchi

Firenze – Il  giallo è un genere di narrativa assai difficile perché  il lettore si attende che la soluzione  sia  un coup de theatre  per non cadere nel  solito assassino-maggiordomo. Finisce così che  molti romanzi  si concentrano  sul finale  mentre è  altrettanto importante,  anzi di più , quello che accade in itinere.

Questo Gigi Paoli lo sa benissimo  visto che lo esprime appieno nel suo  nuovo thriller,  che potrebbe superare anche il bel successo del suo romanzo d’esordio .

Ne  Il respiro delle anime   (sui contenuti non mi addentro per motivi di spoiler)  tutto nasce  da un ordinario caso di cronaca, un omicidio stradale ma ben presto quasi sottotraccia emergono indizi    dissonanti. Tuttavia, come  insegna  Agatha Christie, anche Gigi Paoli  accanto ad una sequela di indizi che sono una sorta di filo di Arianna, ne presenta altri che  sono una sorta di depistaggio.

Sebbene sia  solo  al suo secondo romanzo giallo, Paoli  si muove con l’esperienza  accumulata in anni di cronaca giudiziaria nella  la redazione fiorentina  della Nazione (attualmente è capocronista della Nazione ad Empoli) ma  anche con  l’abilità  principale del giallista, una sorta di dribbling che  spiazza il lettore con una serie di finte  per arrivare al gol ovvero ad una conclusione inattesa.

Il lettore si trova quindi  coinvolto  nell’indagine  insieme al protagonista,  il giornalista Carlo Alberto Marchi; lo segue  nei suoi giri in una Firenze  inedita e misteriosa.

La città mostra una sorta di dark side dove sono presenze emblematiche il cimitero degli inglesi ( l’Isola dei Morti di Boecklin) e l’enigmatica  Villa dalle finestre Murate.

“Firenze  – scrive infatti Paoli – non era mai stata la città della luce. Era la città delle ombre, dei doppifondi, degli specchi. Firenze era un mistero irrisolto. Dove niente era mai come ti sembrava. Neppure la sua gente. Neppure le sue storie. Neppure i suoi incidenti. E così, in quella soffocante notte di luglio, tutto mi sarei aspettato tranne quello”.

 

Ancora una volta Firenze non è lo sfondo ma una sorta di coprotagonista

“E’ la città più bella del mondo, no? Si merita di essere sempre in primo piano. E infatti sì, lo è anche stavolta. Firenze è uno sfondo ideale per ambientazioni di questo tipo.

Gotham city ovvero il Palazzo di Giustizia… è un simbolo di questa “Firenze rovesciata? “ Come nasce questo appellativo?

“Rivendico con orgoglio e con un sorriso di essere stato il primo ad aver dato questo soprannome al nuovo Palazzo di Giustizia di Novoli. Anzi, come dico sempre, se ricevessi un euro come copyright da tutti quelli che oggi lo chiamano così, beh, sarei miliardario. A parte gli scherzi, nasce in modo semplice: guardando il Palazzo. Torri, angoli, lati spioventi, vetri, materiali pesanti e colori scuri: basta guardare un film di Batman per capire che il Palagiustizia sembra uscito dalla matita di Bob Kane, il disegnatore dell’uomo-pipistrello. Ed è vero che può essere un simbolo dell’altra Firenze, quella assai meno nota ai turisti e molto più tetra”.

Luoghi misteriosi vicende in cui nulla è come sembra, ritmo incalzante…è questo il segreto per rendere avvincente un thriller?

“Non so se ci sia una ricetta. Però un maestro come Ken Follett disse una volta che per rendere avvincente un libro occorre che ci sia un colpo di scena ogni sei pagine e che il primo capitolo è sempre fondamentale. Io, molto più semplicemente, cerco solo di chiudere ogni capitolo con una sorta di ‘sospeso’, un evento che può spingere il lettore ad andare avanti per vedere come va a finire. Così, sospeso dopo sospeso, si porta in fondo la storia. E, si spera, il lettore”.

Quanto ti riconosci nel protagonista il giornalista Carlo Alberto Marchi divenuto famoso con il tuo primo libro?

“Abbastanza. Anzi, molto più che abbastanza. Penso che si debba sempre scrivere di quel che si conosce meglio. E il lavoro di Marchi, in fondo, lo conosco benino. Mi sono molto affezionato a lui, come se fosse un amico. Mi emoziona molto pensare che tante persone lo seguono con affetto. Davvero”.

Si usa definire “fatica letteraria” l’ impegno per scrivere un libro. Ma è davvero una fatica o è soprattutto un modo per conoscere meglio se stessi e la realtà che ci circonda?

“E’ una fatica, certo. Soprattutto mentale, ma anche fisica. Mi sono accorto che non riesco a scrivere più di due capitoli al giorno, una ventina di pagine, se non lavoro al giornale e magari sono in ferie. Ma se lavoro, allora la sera non riesco a farne più di uno, una decina. E’ faticoso ma è anche, usando una parola forse un po’ troppo impegnativa, catartico. Scrivendo della vita di Marchi mi sono accorto più volte che tiravo fuori cose che riguardavano la mia, di vita. E fa bene, senza dubbio”.

E per conoscere meglio l’attività giornalistica? (Per fare un esempio ,senza rivelare nulla della trama del tuo nuovo giallo )… un banale incidente può essere l’inizio di un intricato percorso.. Un appello a non sottovalutare nessun indizio?

“Essere curiosi è la cosa fondamentale per ogni buon giornalista che pensa di essere tale o vuole definirsi tale. E’ la curiosità che spinge a guardare oltre le cose. Che sia un incidente stradale o uno sguardo o una frase. La realtà è molto più semplice di come talvolta la immaginiamo, ma ciò non toglie che la strada per arrivarci sia molto spesso tortuosa”.

Quale è la tua tecnica di scrittura? La trama è già delineata nei suoi vari aspetti o si precisa e si arricchisce man mano, durante la stesura?

“Ho scoperto un mio modo di lavorare, che ho ripetuto in entrambe le circostanze. La parte più difficile è lo schema dei capitoli. Mi spiego: ho una storia in testa, so che devo andare da A a B, dove A è il fatto e B è la scoperta dell’assassino. Fatto questo mi metto al tavolino e mi “creo” la storia. Una volta creata, la spezzo in una trentina di capitoli, così da sapere già cosa accade in ognuno di essi. Poi, in corso d’opera, mi vengono in mente altre cose mentre scrivo e le aggiungo. Mi è successo mentre scrivevo entrambi i libri di arrivare a metà dello schema e di aver inventato strade nuove per arrivare a destinazione. Ma non c’è nessun problema in quel caso: mi rimetto a tavolino e riassesto lo schema alle novità che ho prodotto. Scrivere in sé, per me e per fortuna, è la parte più facile. E’ il lavoro che c’è dietro a essere molto impegnativo, anche perché dopo lo schema dei capitoli iniziano le ricerche, procedurali e scientifiche (come nel caso del “Respiro delle Anime”). Ho ancora la sindrome del cronista di giudiziaria: non mi ammetto errori, tutto deve essere circostanziato, dimostrabile e chiaro. E soprattutto scritto in modo semplice, che tutti possano capire. E’ una regola da cui non ho mai derogato”.

Foto: Gigi Paoli, da http://www.giunti.it/autori/gigi-paoli/

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