Ero con alcuni amici, qualcuno di loro leggendo questo articolo forse si ricorderà anche quel momento. Anche perché quel momento lì, almeno nella mia mente, è tristemente indimenticabile.
Arrivò un sms, un obsoleto messaggio di testo su un preistorico Nokia 3210. Il mittente era mia Mamma, il testo dell’sms recitava: “E’ morto Pantani”. Ripensandoci ancora oggi, si gela il sangue, e non potrebbe essere altrimenti, perché la morte del Pirata è stata la morte di un immortale.
Nell’Italia del dopoguerra, della comunicazione che cresce espandendosi e migliorandosi, Marco Pantani calcio a parte è riconoscibile come lo sportivo italiano più grande. Nel suo sport, dopo il leggendario duello tra Gino Bartali e Fausto Coppi, nel Belpaese c’è stato lui. Prima ci provarono, e con successo anche, i Gimondi, i Moser, i Bugno. Ma nessuno ha emozionato quanto riuscì ad emozionare lui.
Nella memoria degli sportivi italiani a livello di Marco Pantani probabilmente ci sono solo Pietro Mennea e i fratelli Abbagnale. Gli altri sono tutti sotto. Perché Marco Pantani era aggressività, estro, poesia. Rappresentava un ciclismo non calcolato: quando la gamba girava, lui partiva. Via l’orecchino, via la bandana e su in piedi sui pedali. Più forte di tutti.
Che spettacolo quando scattava e poi si fermava a cercare il diretto avversario con gli occhi… Si metteva in surplace, temporeggiava, aspettava, come a dire “dai, io sono qui, ti voglio dare un’altra chance”, e poi ripartiva come un matto. Per soffrire meno, diceva lui. Per dare spettacolo, dico io. Uno spettacolo che a lui veniva naturale. Perché era il più forte di tutti.
C’è stata solo una persona più forte di lui: lui stesso. Il Marco Pantani debole, indifeso, sedotto e abbandonato dal successo, dagli amici, dalla vita. Il Marco Pantani in jeans e maglietta, senza le scarpette con gli allacci per i pedali, senza l’abbigliamento tecnico da ciclista, senza la maglia rosa, quella gialla, senza il bronzo iridato dei Mondiali di Duitama al collo.
Il Pirata che senza la bandana diventava fragile. Quella stessa fragilità, la sua, lo ha ucciso. Pantani si è ucciso da solo, e suo complice è stata la gogna mediatica alla quale è stato esposto dopo le sue implicazioni nel doping. Un accanimento che lo ha gettato nello sconforto, nella depressione, nel rifugio in un paradiso artificiale dal quale è sprofondato fino all’inferno, lui che anziché scendere amava salire, senza ritorno.
Nessuno dice che Marco Pantani non ha fatto uso di doping. Erano gli anni dei controlli evasi, dell’Epo, dello scandalo Festina, di Lance Armstrong, il cowboy senza scrupoli, e della costruzione senza freni del suo castello di menzogne. E Marco, come molti altri, era dentro quel sistema.
Ma una cosa va detta. A parità di doping, a parità di pulizia, a 100 all’ora oppure a 10, Marco Pantani in salita era il più forte di tutti.
Ho un ricordo: una tappa del Giro, o del Tour, il suo gregario più prezioso, Massimo Podenzana, in testa al gruppetto, sbuffa come una locomotiva lo spezzino, suda, è rosso, la vena sulla tempia sembra un tubo di scappamento, macina sui pedali e con la coda dell’occhio cerca Marco, cerca il suo capitano, vuole che parta, non riesce più a tenere quel ritmo, lo fa per lui ma non ce la fa più, parti Marco, parti cristo santo, parti perché sto per morire…
E Marco alla fine parte, Podenzana si lascia staccare, morto e felice perché il suo capitano vola verso la vittoria. E noi in tv, grandi e piccini, esultiamo, morti per la mancanza di voce, ma felici. Siamo tutti un po’ Podenzana, col fiato ti tiravamo lo scatto Marco. E ora ci manchi. Saremo per sempre i tuoi gregari. Tra altri 10, 20, 30 anni… A 100, come a 10 all’ora. Perché eri il più forte, e nei nostri cuori lo resterai per sempre.
Niccolò Bagnoli