Non è vero che tagliare la spesa pubblica e abbassare le tasse, lasciando più spazio al mercato, porta a una riduzione delle disuguaglianze: “Economie meno gravate da regolazione e tassazione possono crescere a ritmi elevati in termini di reddito e occupazione, ma a costo di maggiori disuguaglianze”. Mentre, al contrario, la redistribuzione attraverso le relazioni industriali, nuovi modelli di welfare, politiche di formazione, “può non intralciare o addirittura stimolare, a determinate condizioni, l’efficienza dinamica del mercato, l’innovazione e la crescita”.
Per le democrazie avanzate il compito principale è dunque definire politiche che rendano efficaci i percorsi redistributivi, e per farlo dovranno mettere a fuoco fino in fondo la loro specifica natura istituzionale per individuare i correttivi necessari per fermare la crescita delle disuguaglianze che la pandemia sta trasformando in emergenza sociale.
Uno studio durato diversi anni e realizzato da un gruppo di 18 ricercatori in quattro città italiane coordinato da Carlo Trigilia, docente di Sociologia economica all’Università di Firenze, ha messo a confronto le principali democrazie occidentali per rispondere alla domanda cruciale: “Si possono conciliare crescita e uguaglianza?”.
La ricerca è stata appena pubblicata dal Mulino (“Capitalismi e democrazie”, a cura di Carlo Trigilia) e grazie all’importanza del suo apparato di dati e la completezza delle analisi comparate, entra a pieno titolo fra i più importanti studi sulla crescita della disuguaglianza all’interno delle democrazie più avanzate. Un dibattito che in questi ultimi anni ha visto saggi importanti come quello di Thomas Piketty o di Joseph Stiglitz. La conclusione va al cuore degli assetti istituzionali, in particolare di quello italiano.
Il punto di partenza è la constatazione che la globalizzazione ha aumentato la ricchezza dei paesi più arretrati, riducendone il gap rispetto a quelle avanzati ma, all’interno di quest’ultimi, ha prodotto una crescita generalizzata non omogenea delle disuguaglianze a causa delle delocalizzazioni, dell’innovazione tecnologica, della crescente debolezza delle rappresentanze dei lavoratori .
I ricercatori hanno messo a confronto i modelli di welfare di otto paesi suddividendoli, in base agli indicatori economici, fra quelli nei quali l’alto reddito corrisponde a un’alta disuguaglianza (Usa e Uk), quelli nei quali l’alto reddito si coniuga con una bassa disuguaglianza (Paesi scandinavi e nord europei) e quelli, come l’Italia e la Spagna, nei quali il basso reddito si accoppia a un’alta disuguaglianza.
Si vede così che “diversi tipi di democrazia alimentano modelli diversi di capitalismo”. In poche parole, escludendo il capitalismo anglosassone che dopo il cosiddetto glorioso trentennio (1950-80) ha puntato alla deregolamentazione del mercato riducendo senza fine la spesa sociale, quello “renano” dell’Europa mostra combinazioni diverse di crescita e disuguaglianza del reddito, a seconda se sono state introdotte forme di regolazione per contrastare la disuguaglianza e se queste sono state efficaci .
Ciò è avvenuto a causa prevalentemente di “fattori istituzionali endogeni”, cioè delle tendenze che si sono evidenziate nell’assetto dei singoli sistemi democratici: se hanno assunto prevalentemente la forma di una democrazia maggioritaria o quella di una democrazia negoziata. Quest’ultima è riuscita a mantenere una “crescita inclusiva”, mentre la prima l’ha smarrita perché ha spinto le forze che rappresentano le voci più deboli e si battono per l’equa redistribuzione delle risorse, a spostarsi verso i ceti più moderati, per avere prospettive di vincere la competizione per il potere.
L’analisi comparata indica che i paesi a democrazia negoziata sono riusciti a raggiungere “un’integrazione positiva fra redistribuzione e crescita”, dimostrando che è possibile costruire modelli di welfare e di protezione delle classi più deboli che non solo non rallentano lo sviluppo dell’economia ma possono contribuire a sostenerlo. “Lo sviluppo inclusivo – scrive Trigilia – appare associato a relazioni industriali incisive e istituzionalizzate, anche tramite diffuse pratiche di concertazione; politiche attive del lavoro ben costruite; modelli di welfare estesi e orientati in senso universalistico; politiche per l’istruzione e l’innovazione consistenti ed efficaci”.
Il messaggio per il modello italiano, che costa molto e rende poco sul piano della redistribuzione, è chiaro: ci vogliono importanti interventi di riforma che dovrebbero focalizzarsi sui nuovi rischi, le nuove occupazioni, le donne, i giovani, servizi e formazione.
Un punto di partenza essenziale, secondo lo studio, sta nell’individuare il giusto meccanismo di conquista del consenso. L’analisi dei ricercatori conduce a prendere atto che il sistema proporzionale, alla base di un governo negoziato di coalizione, è una base migliore per affrontare il problema delle disuguaglianze e che il vero nemico di una società più equa ed equilibrata è un sistema basato sulla personalizzazione della leadership e l’indebolimento dei partiti.
Una riforma che pone le premesse istituzionali richieste tuttavia non è sufficiente se non si viene a creare una effettiva convergenza di forze che, pur partendo da impostazioni e tradizioni diverse vedono nella costruzione di una società più giusta e solidale il loro obiettivo prioritario. L’Europa sembra avere imboccato questa strada.
Foto: Carlo Trigilia