Tanto tuonò che piovve. L’arrivo di Giorgia Meloni alla soglia di Palazzo Chigi era un evento annunciatissimo. I sondaggi (il cui uso ossessivo corrisponde a una sostanziale forma di condizionamento dell’opinione pubblica) ci avevano abituato all’idea. Il popolo (o meglio, l’elettorato, perché c’è una porzione di popolo che non vota), d’altra parte, è sovrano. Non c’è che da seguire gli sviluppi della situazione. Se questo passaggio servisse a consolidare, anzi, una matura democrazia dell’alternanza, il Paese avrebbe da guadagnarne.
Ma ci sono, come è noto, dei (non piccolissimi) punti interrogativi. Quelli relativi al sovranismo, al rapporto con l’Europa, ai propositi di modifiche dell’assetto istituzionale dello Stato. Questione da affrontare in modo aperto, si dirà. Ma facendo attenzione all’impatto che una modifica in senso presidenzialista della nostra Costituzione (con l’elezione diretta, da parte dei cittadini, del Capo dello Stato) potrebbe avere sugli equilibri di un Paese come il nostro così sensibile al richiamo delle sirene populiste. Il presidenzialismo non è negativo in sé. Ci sono grandi democrazie che hanno un impianto di tipo presidenziale. Gli Stati Uniti, la Francia. Ma il presidenzialismo richiede adeguati contrappesi. Altrimenti il rischio di finire, senza parere, in una «democratura» (un regime con le vesti democratiche e la sostanza autoritaria) è reale. In ogni caso, certo, auguri di buon lavoro al Governo che sarà.
Che però sarà espressione di forze che (al di là della vulgata mediatica) è difficile inquadrare come portatrici del «nuovo» (uno dei miti più fallaci dell’era post-Prima Repubblica). La Lega di Matteo Salvini (anche se ridimensionata); Berlusconi con la sua Forza Italia (meno ridimensionata del previsto); e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (la vera vincitrice). Di cui va riconosciuta la professionalità politica, ma che si è formata dentro un conosciutissimo contesto politico. Il vecchio centrodestra (con il quale è stata anche ministra). Un centrodestra, che ha vinto, ma non ha sfondato, redistribuendo soprattutto al suo interno i consensi.
In ogni caso, il centrosinistra ha perso. Anche la sconfitta era annunciatissima. Né è stato fatto alcunché per evitarla. Adesso, intendiamoci, non c’è il rischio del fascismo alle porte. Anche se (come ci viene ricordato) siamo esattamente ad un secolo dalla Marcia su Roma (si vedano, in questo senso, i recenti libri di Cazzullo e di Scurati). È evidente, però che, in condizioni storiche per fortuna diversissime, sinistra, centrosinistra e centro hanno fatto esattamente quello che fecero cento anni fa. Quando i comunisti si divisero dai socialisti. E i socialisti massimalisti cacciarono fuori i socialisti riformisti (di cui faceva parte Giacomo Matteotti). Di più: socialisti e popolari (cioè il partito dei cattolici democratici) si guardarono bene dal trovare un’intesa fra loro. Che sarebbe stato forse l’unico modo per sbarrare la strada al fascismo.
Oggi, con una legge elettorale che fa scegliere i parlamentari, per un terzo, con un meccanismo di tipo maggioritario (che impone le alleanze), le forze contrarie alla destra si sono divise in tre. 5 Stelle, centrosinistra (versione ridotta) e Azione-Italia Viva. Adesso nessuno si sottrae dal tirare la propria pietra per la lapidazione (politica, si intende) di Enrico Letta. Il quale, peraltro, ha prontamente dichiarato che lascerà la segreteria del PD. Ha fatto errori. Non c’è dubbio. Ma sono errori che sono stati condivisi. E non è l’unico ad avere responsabilità. Non era semplice ricostruire rapidamente un terreno comune con il movimento di Giuseppe Conte, che aveva aperto la strada (su cui si sono inserite Forza Italia e Lega) al rovesciamento del Governo di unità nazionale. Poi c’è stato il patto con Calenda. Che è stato disconosciuto dopo tre giorni.
Ma questa, si dirà, è acqua passata. Che non macina più. È giusto. Guardiamo al futuro. Cosa c’è dopo il day after* che ha inchiodato il centrosinistra a questo risultato elettorale? Non è semplice immaginarlo. Tra l’altro, il nostro punto di osservazione che muove dal «fortino» (o dall’«isola») dell’area fiorentina, che ha, parzialmente, arginato l’ondata di destra, può indurre a possibili errori di valutazione. Ma qualche riflessione può essere abbozzata. In relazione alla terapia che il PD (che è pur sempre la seconda forza politica del Paese) cercherà di mettere a punto per risalire la china, ricostruire alleanze, riallacciare rapporti con quelle parti della dell’elettorato che a votare non ci sono proprio andate (problema non da poco, anche qui, in Toscana, specificamente per la sinistra).
Rimettersi a discutere immediatamente di candidature per la segreteria somiglia ad una, non produttiva, coazione a ripetere. Si dice da più parti: faccia, il Partito Democratico un Congresso vero. Ma come si fa a fare un Congresso vero? Bisogna evitare Scilla e Cariddi. Non limitarsi ad una discussione che coinvolga solo gli iscritti (una dimensione, a questo punto, troppo ristretta, numericamente e politicamente). E non puntare direttamente all’ormai rituale conta nei gazebo. In un tempo in cui in cui sono assai labili i contorni stessi delle culture politiche, si dovrebbe forse avere il coraggio di andare controcorrente e di promuovere un grande dibattito delle idee, che coinvolga un’ampia area politica e culturale che fa riferimento alla sinistra, al cattolicesimo democratico, all’impegno per la cultura della pace e i diritti umani.
Firenze (che ha una storia di grandi esperienze e idealità) potrebbe dare un contributo specifico in questo percorso. Un percorso che potrebbe avere, paradossalmente, proprio per la particolarità del momento, una sua forza coinvolgente. I tempi sono diversi e non paragonabili. Ma chi non ha memoria del carattere appassionante, pur nelle lacerazioni, che caratterizzò il periodo successivo al crollo del Muro e al passaggio dall’allora Pci ad un nuovo nome e ad una nuova configurazione? Un processo costituente, dunque?
Senza impigliarsi in definizioni troppo impegnative, forse sì dovrebbe avere la fantasia di pensare a qualcosa del genere.Riscoprendo anche una dimensione che oggi, sembra, a prima vista, irrealistica anche da concepire. La capacità di vivere fra diversi. Come accade in alcuni grandi partiti della sinistra democratica europea. Il Labour Party e la Spd, in Germania, dove trovano il modo di convivere estremisti di sinistra e ultrariformisti social-liberali. Non c’è bisogno, per dirla con una battuta, di puntare ad una rottura o alla fondazione di un nuovo partito ogni volta che le differenze vengono a confrontarsi o anche a scontrarsi. La pluralità, a volte, è una ricchezza, non un limite. Certo ci vuole la capacità di sintesi politica per rendere produttive le differenze. Ma qui è Rodi, come si dice, e qui bisogna saltare.
Altrimenti, per dirla in maniera brusca, il Partito democratico rischia la dissoluzione o la possibile divisione in due tronconi, uno dei quali attratto dai 5 Stelle e un altro risucchiato dal Polo (terzo o quarto che sia) di segno moderato. Si dirà che potrebbe essere un elemento di chiarificazione. È discutibile che sia anche un bene. Avere un forte partito di centrosinistra oggi all’opposizione, che però possa ricandidarsi a governare nuovamente il Paese è non solo nell’interesse di una parte, ma di un sistema politico fondato su una vera cultura dell’alternanza.
Ma, certamente, per questo sarebbe necessario il rinnovamento del gruppo dirigente. È evidente. Qui, c’è la «verità interna» delle istanze che, nel momento del suo exploit, aveva interpretato (certo, in maniera discutibile) lo stesso movimento cinque Stelle. La «riforma della politica» non può essere solo evocata a parole. E la politica stessa non può solo essere un affare interno a un ceto professionale che autoriproduce sé stesso. Ci vuole, certo, professionalità nella politica (come insegnava Max Weber), ma bisogna che essa torni ad aprirsi alla società per ridare credibilità alla dimensione della rappresentanza. Detto in termini semplici, rimanendo all’ interno della vicenda specifica del centrosinistra, qualche candidatura di prestigio in più (selezionata all’esterno del ceto politico) avrebbe potuto ottenere probabilmente anche qualche consenso in più.
Forse è il caso di chiudere queste riflessioni estemporanee con due rimandi. Il primo, riferito ad un sondaggio (anche i sondaggi, a volte, servono!) in cui si chiedeva agli intervistati (dopo i risultati del voto) se vedessero come un fatto positivo il probabile incarico di formare il governo a Giorgia Meloni. Il 48 per cento rispondeva di no. Un percentuale ben più alta del consenso conseguito elettoralmente dal centrodestra. Cosa meno strana di quel che sembra perché fra gli intervistati ce n’erano evidentemente molti che a votare non sono andati. Lì, infine, si torna. All’astensionismo crescente che tutti, destra e sinistra, dovrebbero sentire come un chiodo conficcato nel tessuto democratico della nostra società.
L’altro rimando che vorrei richiamare, apparentemente, non c’entra niente. Il giorno prima delle elezioni, a Firenze, in Piazza S. Ambrogio, c’erano le donne e i democratici iraniani a che manifestavano per chiedere solidarietà ai loro concittadini in lotta per la loro libertà. Quasi un qualcosa di esotico, apparentemente, se rapportato al clima della recente campagna elettorale. Eppure, se la politica non torna ad interessarsi di queste grandi questioni non ha futuro. Forse ha ragione Michele Serra quando, in una sua recente «Amaca» su «Repubblica», parlando di Hadith Najafi, la ventenne ragazza-simbolo uccisa dalla polizia e vera «martire della libertà», conclude amaramente, che noi «la dimenticheremo presto perché per noi la libertà è una pigra consuetudine. I persiani, che sono un grande popolo, non la dimenticheranno».
Severino Saccardi