Gengis Khan e il Tibet, come la Cina riscrive la storia

Musei francesi al centro di pressioni per le mostre su Gengis Khan e il Tibet

I tempi sono difficili, tanto più difficili perché ci stiamo bruscamente ritrovando in un mondo che per scarsi lumi o per quieto vivere avevamo riordinato un po’ troppo a nostro piacimento o alla luce di una storia non sempre in linea con i fatti. Insomma, di colpo il re ci è apparso nudo e non sono stati certo gli occhi innocenti di un bambino ad averci illuminato.

Saltava agli occhi che l’Europa fosse divenuto solo un mercato unito con interessi politici divergenti e un’influenza nel mondo in penoso declino, che non solo Russia e Cina privilegiassero i loro interesse ma che anche gli Stati Uniti non fossero da meno, tanto da rinnengare  quei legami che sembravano unirci, come quelli della democrazia e dei diritti umani. Anche noi poi, con l’usare i due pesi e due misure, stavamo dando una mano a minare la nostra credibilità e quel che resta della nostra influenza.

Questo solo per dire che appare più che mai urgente conoscere al meglio chi ci circonda e muoversi tenendo conto di una realtà che tanto lontana appare dai nostri principi di rispetto dei trattati, accordi e diritto internazionale. E anche della storia. Come vorrebbe fare la Cina che in Francia cerca di ottenerne una riscrittura. La prima avvisaglia la si era avuta  a Nantes quando il suo museo di storia, il Château des ducs de Bretagne, stava allestando per il 2023 una grande mostra sul grande condottiero mongolo Gengis Khan i cui discendenti , tra cui Kublai Khan incontrato da Marco Polo, avevano poi regnato sulla Cina.

Pechino, non contenta che gli si desse così ampio spazio, avevano fatto pressioni sul museo di Nantes, chiedendo che fosse tolto il nome del condottiero dal titolo della mostra, altrimenti non avrebbero inviato alcun oggetto dalla Mongolia interna che fa parte della Cina. Nantes aveva nettamente rifiutato e aveva ottenuto preziosi cimeli dalla Mongolia, ben contenta di far conoscere meglio il suo eroe, ora considerato non solo più  come un abile conquistare ma anche un uomo di stato tollerante che, potenziando il commercio e gli scambi culturali su un immenso impero, poteva rivendicare la prima globalizzazione della storia.

La mostra aveva avuto vasta eco anche per le ingerenze cinesi. Che però, nonostante il flop,  non si erano arrestate. Così, con grande disappunto, si è appreso ad agosto che il Museo Guimet, che riunisce a Parigi magnifiche collezioni di arte orientali, non aveva saputo resistere al ricatto. Così come il Museo di Quai Branly. In entrambi era scomparsa la parola Tibet nelle loro sale di esposizione. « Musei francesi si piegano davanti alle esigenze cinesi di reiscrivere la  storia cancellando popoli » aveva denunciato nei mesi scorsi una tribuna pubblicata da Le Monde in cui studiosi tibetani criticavano aspramente il museo per aver sostituito sul catalogo degli oggetti del Quai Branly la parola Tibet con  « regione autonoma del Xizan » e nelle sale del Guimet « mondo himalayano ».

« Questa modifica, si precisa nella tribuna,  è solo l’applicazione di una legge in vigore  dal 2023 nella repubblica popolare di Cina » che da anni mira a « cancellare dalle carte  e dalle coscienze »  il Tibet « occupato e colonizzato dagli anni ‘50 ».

Secondo i firmatari le nuove denominazioni erano il risultato delle pressioni esercitate dalla Cina e sarebbero coincise con la visita in Francia di Xi Jiping a maggio per i 60 anni di relazioni diplomatiche tra i due paesi.  I musei, sempre a loro avviso, non avrebbero respinto le pressioni per non pregiudicare in nessun modo « il loro accesso alle zone di ricerca ,  alle fonti e agli archivi cinesi e poter beneficiare dei generosi finanziamenti  e dei prestiti di oggetti  museografici che dipendono dal benvolere del regime cinese ».  Ai danni di una « spietata sinizzazione » e la repressione da parte di un regime dittatoriale.

L’ondata di polemiche ha avuto qualche effetto sul museo del Quai Branly che ha ora deciso di togliere la denominazione Xizang e di  menzionare più chiaramente la provenienza tibetana. Non così al Museo Guimet che ha respinto ogni idea di pressioni e complotto e mantenuta tale e quale la sua denominazione « mondo himalayano » che suo avviso offre maggior comprensione degli spazi asiatici ai non specialisti. Una spiegazione che gli studiosi tibatani hanno trovato a dir poco affatto convincente.

Il sospetto di pressioni viene anche avvalorato dall’agenda delle bellissime mostre allestite dal Museo Guimet che dall’autunno offre grande spazio alla Cina. Per ospitare fino al 3 marzo una magnifica esposizione sulla dinastia Tang  il cui impero era contemporaneo con l’impero carolingio . Grazie ai prestiti cinesi, questo impero (618-907)e la sua capitale Chang’an (ora Xi’an) si presenta ai nostri come un’esempio di lusso e raffinatezza. Precedentemente erano stati esposti i rarissimi ori della dinastia Ming. «  Lo splendore  e la bellezza della Cina Imperiale » , allestita grazie ai prestiti  del museo di Belle Arti di Xi’an, mostrava un altro aspetto dell’impero Ming, noto per la costruzione della Città Proibita e della Grande Muraglia, quello di un’affluenza di una classe di raffinati e ricchi mercanti  che non lasciarono alla sola aristocrazia il privilegio del lusso.

La Cina non è stata e non sarà la sola al mondo a voler riscrivere la storia a sua gloria. Senza muoversi da Parigi, basta rivolgere l’attenzione al’Institut du Monde Arabe dove si fa volentier confusione tra mondo arabo e quello musulmano. Cosicché i giardini persiani diventano arabi, Samarcanda viene inserita nel mondo arabo per non citare che alcune delle « sviste » di sono stata testimone e che mirano a ridurre la ricchezza cuturale e artistica dei paesi musulmani al mondo arabo ignorando o minimizzando ad esempio l’immenso impatto della cultura persiana.

Nella foto la statua di Gengis Khan in Mongolia

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