Pietro Germi e John Ford, l’abbraccio tra il nuovo e il vecchio continente

Il saggio di Giannoni a cinquant’anni dalla scomparsa del regista italiano

“Pietro Germi in nome di John Ford”, è il titolo del saggio appena uscito per le edizioni thedotcompany , nella collana Giano diretta da Fabio Canessa, e scritto da Nicola Calocero Giannoni, classe 1977, laureato a Pisa in Storia del cinema , diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, impegnato in promozione e divulgazione cinematografica oltre che  autore e regista di testi e spettacoli teatrali. Il saggio celebra i cinquant’anni dalla scomparsa del regista italiano, il 5 dicembre 1974. E già il titolo spiazza. Lanci la prima pietra chi avesse mai pensato finora di mettere insieme il regista di Divorzio all’italiana con quello di Ombre rosse. E invece.

Invece il libro rivela immediatamente e studia a fondo la sorprendente “parentela” tra i due registi, quello d’oltre oceano e l’italiano del dopoguerra. In un momento, comunque, in cui il cinema italiano aveva grande presa in Italia, tra applausi e polemiche, come sottolinea Giannoni prendendo a prestito  Federico Fellini: “Impossibile non avere simpatia per l’America, e tutti gli sforzi dei nostri amici per farci odiare l’America si sono sempre scontrati contro un’immagine che il suo cinema – almeno per certe generazioni – ha suggerito con tale potenza da diventare l’altro aspetto della vita, la vita sognata, la vita immaginata, che ritrovavi il pomeriggio, la sera in una sala federico cinematografica”.

Tanto più stretto l’abbraccio tra il nuovo e il vecchio continente nel caso di due registi “che sono singolarmente affini, non fosse altro che per un coraggio fuori dal comune, un’eccentricità mascherata dal rispetto delle regole del mestiere, un rivendicato cosmopolitismo. Ford e Germi fanno, più che dichiarare. Hanno successo, ma non disdegnano di pattinare sul ghiaccio sottile della provocazione”, come scrive Giancarlo De Cataldo nella prefazione al libro di Giannoni.

A questo punto, Giannoni, ci dica lei qualcosa del cinema di Pietro Germi. Perché ha pensato di parlarne in un saggio?

“Il cinema di genere di Pietro Germi, a mezzo secolo dalla scomparsa dell’autore e a tre quarti di secolo dalla sua distribuzione nelle sale, necessita oggi di una nuova lettura. Il suo tentativo estremamente affascinante di adattare alla realtà italiana il noir e il western, strutture di genere tipiche del cinema popolare statunitense, dimostra chiaramente quanto fosse eterogenea la situazione del nostro cinema negli anni del dibattito neorealista. Il modello principale seguito da Germi nella sua intuizione risulta John Ford, le cui riletture identificano diversi livelli di citazione. Fu proprio grazie all’innesto del modello statunitense nella struttura del racconto contenuto nelle pellicole di Germi, ambientate sullo sfondo della metropoli o della provincia meridionale, che i suoi film si emanciparono dalle vecchie categorie rappresentative della stracittà e dello strapaese e  diventarono film di genere,  noir e western”.

  Come definisce Germi?

“Un grandissimo autore del cinema italiano che purtroppo non viene annoverato tra i grandi come dovrebbe perché non ha mai lavorato, come gli altri, per valorizzare se stesso, ma ha fatto cinema per il pubblico. Per Germi il cinema non ha bisogno di adattare un testo narrativo precedente per ottenere autorevolezza e splendere di luce riflessa. Secondo lui il cinema vive di luce propria grazie al consenso popolare. Il suo cinema non era fatto per conquistare la gloria per sé ma per piacere alla gente. Inoltre ha sempre frequentato il cinema di genere, anzi di vari generi, in un epoca in cui non usava. Tutti lo conosciamo per la commedia all’italiana negli anni ‘60, vedi Divorzio all’italiana”.

E la connessione con John Ford?

“Germi si lascia ispirare dal  regista americano dal 1949, da quando gira i suoi due primi film siciliani: In nome della Legge e Il cammino della speranza..In questi due film si adatteranno in maniera funzionale alle vicende italiane due pellicole cruciali del cinema fordiano: Sfida infernale e Furore. Si tratta del momento più importante dell’influenza di Ford, quando il modello diventa di tale peso da poter quasi considerare Il cammino della speranza come un remake del fordiano  Furore.   L’analisi dell’influenza di John Ford sul cinema di Pietro Germi si colloca su tre principali livelli. Quello di cui sopra è il primo”.

E gli altri due?

“La seconda fase del confronto mette in relazione il film di Germi, Il brigante di Tacca del Lupo, con la Trilogia della Cavalleria, ovvero i tre film western di Ford: Il massacro di Fort Apache, Rio Bravo e I cavalieri del Nord Ovest. Il riadattamento dell’western in chiave italiana è particolarmente impressionante nella rappresentazione dell’episodio della guerra tra bersaglieri e briganti, all’indomani dell’unificazione, tanto da risultare quasi una trasposizione western del Risorgimento. Infine, c’è la terza fase, rappresentata soprattutto dal finale di Un maledetto imbroglio in cui il regista genovese adotta una serie di soluzioni stilistiche ricavate dal linguaggio di Ford e finisce con il contaminare il noir con il western.”.

 Western e noir, sono i due generi che il regista italiano trasferisce da Ford all’Italia, lei dice. Ci spieghi meglio.

 “Sì, la grande intelligenza di Germi mutua dai film polizieschi dalla fine 40 ai 60 il noir all’italiana e li adatta al paesaggio italiano. Il genere western riflette la provincia, quello noir si occupa delle città. Sono film molto originali che sia per la messa in scena che per la caratterizzazione dei personaggi non aderiscono completamente al neorealismo , tuttavia sono  il contributo di Germi del neorealismo, di uno che sente il peso del racconto nei confronti del pubblico. Era un regista moderno, un pioniere”.

Lei afferma che nel panorama del cinema di quegli anni Pietro Germi fosse un pioniere. Eppure sostiene anche che Germi si ispirò a Ford. Non è un’incongruenza? 

“No. Anche nei confronti del cinema americano e di Ford lui non è mai stato un epigono, ma un pioniere perché adatta il linguaggio del regista Usa  alla realtà italiana e in questo senso è il primo che fa un certo tipo di cinema. Ma la sua modernità con si ferma qui”.

 Ovvero?

“Germi è un pioniere anche nel cinema che attacca la cultura patriarcale di cui oggi si fa un gran parlare. Intanto però lui aveva già girato Alfredo Alfredo, Sedotta e abbandonata, Divorzio all’italiana”.

 E’ vero quanto a patriarcato, ma quanto al genere western non è il solo in Italia.

“Se allude a Sergio Leone la differenza è totale. Sergio Leone si serve del western per raccontare tutto il mondo, Germi un parte del mondo”.

 Lei dice che è stato sottovalutato? Perché è successo?

“Una delle ragioni l’abbiamo già detta, e cioè che Germi faceva film belli per la gente e non per promuovere se stesso. L’altra ragione per cui  non venne sufficientemente apprezzato è che fece cinema in un periodo fortemente politicizzato in cui lui invece restò sempre indipendente, preferendo andare avanti per la sua strada e non fare parte di una corrente ideologica. Fece un cinema sociale e civile ma non appartenente a una specifica corrente politica. Caratteristica che nel nostro paese spesso si paga”.

 Ma quanti anni ha lei?

“Ho 47 anni e mi piace il cinema”

Bene, ci sembra  giovane per avere familiarità con Germi che era già scomparso a soli sessant’anni quando lei non era ancora nato.Come lo ha scoperto?

“Quando ero ancora adolescente e ero andato a  vedere Nuovo cinema Paradiso in cui Tornatore fa un omaggio a Germi citando In nome della legge e tutti applaudono. Così io mi sono incuriosito, ho visto tutti i suoi film in cassetta e mi sono appassionato” .

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