Tocca a Rafah, è la settimana della strage di Rafah. L’orrore della guerra che devasta la striscia di Gaza arriva all’estremo sud, dove sono ammassati circa un milione di profughi, spinti là dopo l’invito a lasciare le loro case a nord per evitare gli ‘effetti collaterali’ dell’aggressione israeliana. Ma ora l’esercito di Netanyhau, a caccia di terroristi come si vuol far credere, avanza fino ai confini con l’Egitto e, nel tentativo di uccidere due capi di Hamas, saltano in aria 45 sfollati della tendopoli. Certo, ‘un tragico incidente’, dice Israele, dovuto a un incendio scoppiato nel campo. Il giorno dopo però, la battaglia continua ad infuriare e i morti stavolta sono 21. Operazione riuscita: i due comandanti di Hamas sono stati effettivamente uccisi. Con loro se ne vanno 60 civili, la maggior parte donne e bambini di cui arrivano in tutto il mondo le immagini dei corpi amputati e bruciati. E questo con il valico di Rafah chiuso, l’unico stretto passaggio da cui possono arrivare viveri e soccorsi sanitari. La buona notizia – ormai le buone notizie sono di poter riuscire a portare un minimo di aiuti ad una popolazione stremata – è che Israele ed Egitto avrebbero deciso – bontà loro – di riaprire il corridoio umanitario.
Rafah scatena una nuova ondata mondiale di indignazione, nuovi inutili appelli ad una tregua che possa liberare gli ostaggi israeliani e fermare la carneficina di civili. Fuori dall’inferno di quei territori, la diplomazia mondiale sembra in stallo, si moltiplicano però le manifestazioni e le iniziative simboliche, dalle più significative politicamente, come il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di tre Stati europei, all’esposizione della bandiera palestinese nei palazzi di alcuni Comuni italiani.
Quella bandiera, agitata da mesi nelle manifestazioni di piazza in tutto il mondo, dopo la strage di Rafah è arrivata perfino dentro l’aula della Camera a Roma. Le opposizioni (Pd, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra) chiedono un’informativa urgente della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro degli Esteri Antonio Tajani su quanto accade a Gaza. Ma soprattutto chiedono che anche l’Italia riconosca lo Stato di Palestina, impegno che, peraltro, già era stato votato dal Parlamento nel 2015.
Beppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd riferisce all’Aula della sua “angoscia crescente, dopo gli attacchi a Rafah, con bambini bruciati vivi dalla morte venuta dal cielo”. E’ l’ora, aggiunge, che si pronuncino “parole di condanna chiare e serve un impegno dell’Italia all’Onu per far rispettare la legalità internazionale, per il cessate il fuoco, per fermare i razzi di Hamas e liberare gli ostaggi”. Perché ci sono stati “troppi silenzi”, sottolinea. E concludendo: “E’ possibile spezzare la spirale di orrore? Noi crediamo di sì”. Poi il capogruppo del M5S Riccardo Ricciardi, ribadisce gli stessi concetti e dietro di lui i suoi compagni sventolano bandiere palestinesi e una enorme bandiera della pace. Pochi secondi, non si può fare, intervengono i commessi, si sospende la seduta, ma l’impatto è forte.
L’effetto Rafah corre non solo a Montecitorio, è nello stesso giorno che il premier spagnolo Pedro Sanchez formalizza il già annunciato riconoscimento dello Stato di Palestina, con un discorso dalla Moncloa dove parla di “decisione storica che ha un unico obiettivo, ovvero aiutare israeliani e palestinesi a raggiungere la pace”. A seguire la Norvegia, che ritiene questo passaggio “una pietra miliare perché Oslo è “da più di 30 anni fra i più forti difensori” dei palestinesi. E l’Irlanda: “Il governo riconosce la Palestina come uno Stato sovrano e indipendente e ha accettato di stabilire piene relazioni diplomatiche tra Dublino e Ramallah”. L’Unione europea, che sembra irrilevante sul piano diplomatico, si attiva come può, anche il presidente del Consiglio europeo Charles Michel considera “un buon passo” l’iniziativa dei tre Stati e si dice a favore del riconoscimento dello Stato di Palestina, ma precisa che questo Stato deve essere “vitale” e auspica un “approccio coordinato con gli Stati membri Ue”, la maggior parte dei quali ha bisogno di più tempo.
Israele ovviamente non l’ha presa per niente bene, il ministro degli Esteri Israel Katz si è scagliato contro la Spagna e ha ammonito che riconoscere lo Stato palestinese significa “essere complici nell’istigare all’assassinio del popolo ebraico e ai crimini di guerra”. Ma la schiera era già lunga: dieci anni fa lo aveva fatto la Svezia e anche tutti i paesi ex Unione Sovietica riconoscono lo Stato di Palestina, nel mondo sono 146.
L’effetto Rafah corre anche sui muri dei palazzi comunali. Comincia il sindaco di Bologna Matteo Lepore a far sventolare sulla facciata di Palazzo D’Accursio la bandiera palestinese: “Come sindaco di un Comune storicamente schierato per la Pace, la non violenza e la salvaguardia dei diritti umani – spiega- è per me doveroso prendere posizione. L’attuale governo israeliano deve fermarsi e riaprire il fronte del dialogo. Quando questo avverrà e sarà ripristinato pienamente il diritto internazionale, esporremo accanto alla bandiera palestinese anche quella israeliana”.
Qualche ora dopo la bandiera palestinese sventola sul palazzo comunale di Pesaro e il sindaco Matteo Ricci spiega: “E’ evidente che da settimane Netanyahu ha scambiato completamente il diritto sacrosanto alla sicurezza di Israele con il diritto alla vendetta. E noi non possiamo accettarlo”.
Le bandiere aleggiano poi nelle mozioni d’opposizione in vari altri consigli comunali, a cominciare dal Campidoglio, dove si chiede anche il riconoscimento dello Stato di Palestina e dove si osserva un minuto di silenzio per le vittime di Rafah.
L’Ucoii, l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, raccoglie tutti gli spunti e cerca di estendere l’iniziativa per darle maggiore spessore politico: “Chiediamo a tutti i governatori di Regione e ai sindaci italiani di esporre la bandiera palestinese in segno di solidarietà con la popolazione vittima dell’ennesimo massacro”. Aggiunge poi la richiesta allo Stato italiano di riconoscere lo Stato di Palestina. Ma il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani aveva già risposto che non è tempo per questo passo.
Rafah ha lasciato il segno quindi. La giornata dopo la strage della tendopoli è un concerto di iniziative, anche spontanee, tutte insieme e in tutta Europa, come un’orchestra che vuole suonare la sveglia, ognuno come può, dalle piazze degli studenti, ai comuni, agli Stati. Carte bollate, bandiere, slogan, cortei e parole d’ordine. Poca roba rispetto all’enormità di quella guerra, ma racconta un limite che sembra ormai intollerabile.
Alla fine la sveglia la suona da oltre Oceano anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un discorso solenne di 14 minuti dove annuncia un piano di pace che stavolta sembra più serio perché apparentemente accettato dalle due parti in causa. Una road map in tre fasi, con la novità che il ‘cessate il fuoco deve essere permanente’ e questo ha convinto Hamas che ora commenta “positivamente” e torna a sedersi al tavolo delle trattative.
La prima fase del piano prevede sei settimane in cui l’esercito israeliano si ritira da tutte le aree abitate in cambio della liberazione di gran parte degli ostaggi, nella seconda fase si completa l’opera e nella terza si ricostruisce quel territorio devastato.
La road map di Biden ha raccolto consensi generali, a partire dal numero uno dell’Onu António Guterres, che auspica di arrivare così a “un accordo tra le parti per una pace duratura”. Favorevoli anche molti paesi arabi dialoganti e in Europa quasi tutti i primi ministri, ma soprattutto la presidente della commissione Ursula Von Der Leyen: “Sono pienamente d’accordo con il presidente americano, Joe Biden, sul fatto che l’ultima proposta rappresenta un’opportunità significativa per porre fine alla guerra e alle sofferenze dei civili a Gaza. Questo approccio in tre fasi è equilibrato e realistico. Ora ha bisogno del sostegno di tutte le parti”.
Ma Israele, dopo non solo la disponibilità ma l’attiva partecipazione al piano presentato dal presidente americano, sembra frenare e il giorno dopo cambia tono: “Le condizioni di Israele per porre fine alla guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e la garanzia che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele. L’idea che Israele accetterà un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni siano soddisfatte” non sembra contemplata.
Una doccia fredda, ora le bandiere sembrano sventolare ancora più forte, mentre i profughi di Rafah si preparano a un nuovo esodo biblico senza sapere più dove andare, dove mangiare, dove curarsi. E la ‘guerra urbana’, la più orribile che possa concepirsi, continua a colpire quello che resta dei civili ormai stremati.
In foto Joe Biden