E’ freddo a Milano la sera del 7 dicembre, quando si ripete il fatidico, chiacchierato e appassionato rito dell’inaugurazione della Scala nella festa di Sant’Ambrogio. Mentre il sipario si apre sul Don Carlo, una donna non in abito da sera scivola silenziosamente fuori dal teatro e inizia una lunga camminata solitaria per la città. Non sente il freddo, è stanca ma ha bisogno di camminare. Poi si quieta, arriva a casa, si butta sul divano, apre Raiplay e si divora tutta l’opera di Verdi. Anna Netrebko, Luca Salsi, chi? “La più grande emozione l’ho provata quando ho visto Liliana Segre sul palco reale” . Segre , considerata simbolo dell’Italia democratica e costituzionale che il 7 dicembre alla Scala sembrava fare le veci dell’assente Mattarella, applaudita dai presenti mentre si alza in piedi per l’inno nazionale dietro a una fascinosa decorazione di fiori, foglie, piante e colori della natura che sembra uscita da un quadro del Cinquecento-Seicento . “Me la sono studiata a fondo la pittura dell’epoca di Don Carlo”, dice la donna che camminava per scaricare la tensione di avere studiato, immaginato, progettato e realizzato la decorazione del palco reale in cui si alza Segre, il più osservato e discusso di sempre, finito sotto le migliaia di occhi del pubblico in sala, delle tv e dei social puntati, più che su un palco reale, sulla sintesi tutt’altro che armonica del diverso sentire del paese.
Lei si chiama Federica Borghi, al palco della Scala c’è arrivata da un popolare banco di fioraia in piazza dei Ciompi a Firenze, “quando ero giovane, avevo due figli piccoli cui badare da sola, e faticavo a sbarcare vita e lunario. Se penso dove sono arrivata mi sembra di sognare”. Partita dal chiosco fiorentino, presto diventato uno uno dei cuori dell’anima popolare e da mercato del quartiere di Sant’Ambrogio e dintorni, dove Federica era conosciuta non solo per il gusto dei suoi fiori ma anche per darsi da fare a promuovere vicinato e città con decorazioni, progetti e colori. Amante dei fiori ma animata dal desiderio di qualcosa di più. A Milano arriva dopo anni di su e giù tra Firenze e il mondo, con dietro i figli piccoli e non poche difficoltà organizzative, economiche, di super lavoro: tra Barcellona , Amsterdam, Londra, Parigi, New York dove la sua determinata volontà si destreggia tra studi e lavori qua e là, tra cui le collaborazioni ornamentali con i Four Seasons delle varie città.
“Ero poco più di una ragazza e organizzarmi da sola con i figli piccoli in giro per l’Europa non è stato semplice ma era quello che volevo: imparare e fare. La mia origine è genovese ma la mia casa è stata Firenze dove mi ero iscritta all’Accademia di Belle Arti e ancora la amo moltissimo, ci torno, penso con nostalgia al mio quartiere di Sant’Ambrogio – racconta – Ma mi stava stretta. Vendevo fiori per mantenermi ma in testa avevo l’arte, volevo fare la scenografa, non sapevo ancora di cosa. Quando ho incontrato i fiori ho cominciato a immaginare grandi scenografie floreali per via dei colori che sono tutto per me ancora adesso che mi divido tra dipinti, sculture, progetti, e scenografie per teatri, eventi, isatituzioni, palazzi. Colori e fiori sono il fil rouge che lega tutto il mio variegato lavoro con l’ amore per la botanica, le coltivazioni alternative, il mondo agreste, la sostenibilità”. I colori c’erano anche nella sua scultura dell’Angelo legata alla sostenibilità e esposta a Venezia all’Arsenale per la Biennale 2022: “Tengono insieme quello che per me è sempre legato: dall’arte al mondo floreale”.
Fino al palco della Scala, ora che i figli, Matilda e Matteo hanno 21 e 23 anni. “Tutto è iniziato quando il sovrintendente Meyer ha chiesto non solo fiori ma un progetto concettuale. Tra le mie collaborazioni milanesi c’è anche quella molto importante con Carbonin Fiori, più che un negozio di fiori un’istituzione tramandata per tre generazioni e in relazione con la Scala da sempre. Straordinari anche perché ti danno fiducia, ti lasciano fare senza gelosie e invidie. Ho cominciato a studiare Don Carlo e i suoi tempi. Ho cercato, e poi comprato in Olanda come faccio sempre, i fiori che più assomigliassero a quelli della pittura francese e spagnola dell’epoca. Tra cui la protea africana, simbolo del Sud Africa, le piante cynare che poi sono semplicemente quelle dei carciofi, la grevillea, le infiorescenze dei paesi caldi, Australia e Sudafrica, simili ai cardi del Cinquecento, le dalie a crisantemo visto che il crisantemo allora era un fiore spontaneo molto amato, la magnolia che piaceva per la foglia bicolore. Ne è venuta fuori un’ installazione complessa che abbiamo montato in tre ore in quattro tra cui Marco, l’ultimo proprietario del negozio di fiori, figlio di una Carbonin. Mi dicevano che non avrebbe retto ma io ero certa che sì. Ho pianto quando Meyer mi ha stretto la mano e la direttrice del Museo teatrale alla Scala, Donatella Brunazzi, mi ha detto che non aveva visto mai niente di così bello a teatro. Abbiamo decorato allo stesso modo il buffet del retropalco, tutti i bar, il foyer dove abbiamo aggiunto la ginestra, abbiamo fatto i mazzi di fiori per gli artisti.”
Dunque in Italia i creativi emigrano anche da città e città non solo all’estero. “Dopo tante città del mondo ho deciso di tornare in Italia perché ci si sta bene e avevo i genitori vecchi, ma ho scelto Milano nonostante il mio legame con Firenze e piazza dei Ciompi – racconta Borghi – Vivo bene a Milano, lavoro dalle 5,30 del mattino alle otto e mezzo la sera, faccio progetti, installazioni, mostre, dipingo, scolpisco, faccio scenografie. Ho progetti con la Rai, il Four Seasons. Armani, sto attendendo l’approvazione di un progetto da Pirelli. Penso spesso a Firenze, ma non c’era l’ambiente per crescere. Milano ha uno spirito cosmopolita, Firenze continua a tenersi chiusa perché ha la fortuna di tenersi addosso tanta bellezza, palazzi, monumenti, chiese. Ma le persone sono sempre le stesse non si rinnovano mai, lo stesso i progetti pur belli che vi nascono e poi restano sempre uguali a se stessi. Non c’è evoluzione, si resta attaccati alla continuità sicura. Milano ha mentalità imprenditoriale, ti puoi lanciare, se non va bene ci hai comunque provato, non sei considerato un fallito”.