Pubblichiamo l’intervento di Dario Nardella, Sindaco di Firenze, che ha aperto lunedì 11 dicembre in Palazzo Vecchio, il convegno “Una patria senza confini?” organizzato dal Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux.
Un mondo senza confini è, come sostiene qualcuno, mera utopia o è possibile immaginare una società senza frontiere, come pretenderebbe una politica no-borders?
Nella sua opera De Vulgari Eloquentia, Dante scriveva: «Ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare». Io oggi credo che indagare il “possibile”, battendosi per una società senza muri, davvero inclusiva, non sia un esercizio di pura fantasia, ma sia qualcosa di più, anzi di fondamentale e imprescindibile. Che può aiutare a smuovere le coscienze, a preparare il cambiamento, estendendo il perimetro della democrazia oltre la dimensione – comunque più che giustificata, sia chiaro – dell’appartenenza a un territorio e a una cultura.
La questione non riguarda infatti solo la dimensione territoriale e culturale, ma anche quello che Hannah Arendt definiva il “diritto di avere diritti”, cioè lo status giuridico di cittadino.
Sebbene, per sua stessa natura, la cittadinanza contenga in sé un principio costruttivo d’inclusione, essa stessa è diventata nel tempo barriera e strumento di esclusione, quasi allo scopo di lasciar fuori alcune persone dalla comunità civile e politica.
È così per i migranti che attraversano le frontiere con il sogno di una vita migliore e che oggi affondano, con buona pace della comunità internazionale, in quel Mar Mediterraneo che per secoli ha unito mondi e culture diverse. Ma è così anche per i ragazzi e le ragazze di seconda generazione che scendono in piazza per rivendicare appartenenza e riconoscimento. Tutti loro sembrano condannati a una indeterminatezza legale che li situa ai margini, ne limita le prospettive di vita, esponendoli a forme di sfruttamento ai limiti dell’infamia.
Cittadinanza e diritti umani sono diventati di fatto materia discrezionale dei singoli Stati. Il concetto di frontiera, dunque, non si limita solo ai confini fisici che ci separano dall’altro, ma si è esteso a tutti gli aspetti della vita quotidiana: dall’accesso ai servizi all’assistenza sanitaria, all’alloggio, al diritto di voto, all’istruzione, al lavoro. In questa congiuntura storica, caratterizzata da processi di globalizzazione e di cooperazione, in cui le frontiere non sono mai state così porose e aperte alla libera circolazione, in cui la generazione Erasmus trova naturale spostarsi da un Paese all’altro, la costruzione di barriere, dentro e fuori dall’Europa, rappresenta uno dei grandi paradossi del nostro tempo.
Con Schengen, l’Europa ha reso meno visibili i suoi confini interni, mentre quelli esterni si sono fatti decisivi. Il muro più famoso della storia moderna – quello di Berlino – simbolo della divisione del mondo in due blocchi, è caduto il 9 novembre 1989. Eppure ancora oggi gli Stati continuano a finanziare la costruzione di muri, per ragioni identitarie, politiche, religiose o di sicurezza, come se fossimo condannati a vivere in una perenne Guerra Fredda.
Oggi il “nemico” è la schiera dei più deboli. Dai Balcani alle Repubbliche baltiche, passando per l’Irlanda del Nord e l’Europa centrale, dagli Stati Uniti alla Corea, dal Medio Oriente al Nord Africa e giù sino a tutto il Sud del mondo. Ma l’elenco sarebbe infinito.
Per il suo esordio alla regia, Kasia Smutniak ha deciso di raccontare la vergogna del muro anti migranti costruito al confine tra Polonia e Bielorussia. Un tema al centro anche del film Green Border della regista polacca Agnieszka Holland che ha vinto il premio speciale della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Muri antichi e nuovi, ipertecnologici, fatti di cemento, di filo spinato, di sabbia o di bidoni, eretti per dividere, per separare, per controllare, certamente anche per difenderci, comunque per marcare differenze o fratture mai ricomposte, o per ricordarci permanentemente i conflitti in corso e quelli prossimi venturi.
Insomma, forse è venuto il momento di dirlo: ognuna di queste barriere è un monumento al fallimento della politica.
E allora come trasformare in realtà l’idea di un mondo senza confini? Se oggi c’è un villaggio reale che urge liberalizzare è certamente quello dei diritti umani. Quella della cittadinanza è una lotta di tutte e di tutti, perché non c’è nulla di più distopico che pensare a Stati chiusi ermeticamente, che escludono dalla cittadinanza chi, per qualche motivo, è diverso, che sospendono temporaneamente, se non in modo permanente, lo stato di diritto e i diritti.
I nostri bellissimi diritti si rafforzano, vengono rispettati, se anche quelli di tutti gli altri lo sono. Allora davvero possiamo dire, citando la frase di Seneca che dà il titolo al prossimo panel: Il mondo è la mia patria.
Dario Nardella (foto)