Gino Mazzoli*
In relazione al dibattito sviluppatosi nelle ultime due settimane intorno alla situazione della Fondazione Mondadori dopo la lettera di alcuni amministratori locali e proseguito con interventi del collega Anceschi, del vicepresidente della Provincia Saccardi e del presidente della Fondazione stessa, Gianni Borghi, vorrei sottoporvi una proposta.
Sono stato tra i più fermi i critici dell’operato della Fondazione e non sono certo preoccupato delle richieste di dimissioni di tutto il Consiglio formulate in questi giorni (sono stato eletto in questo consesso da poco più di un anno, non ho mai votato decisioni in grado di produrre problemi alla situazione patrimoniale della Fondazione, non ho sviluppato un attaccamento a questo incarico tale da pensare di essere indispensabile né tantomeno intoccabile).
Vorrei stare però in questo momento sul piano delle constatazioni e delle proposte, non per evitare il terreno delle polemiche (o peggio per pormi al di sopra di esse), ma per offrire, per quel che mi è possibile, un contributo per affrontare una situazione estremamente critica, oserei dire emergenziale.
Il patrimonio della Fondazione si è fatto esiguo. Abbiamo problemi seri di liquidità (erogazione di beneficenze arretrate e future, retribuzione del personale, completamento del restauro di Palazzo da Mosto) e dipendiamo in toto dall’oscillazione del titolo UniCredit.
La crisi economico-finanziaria produce una lievitazione delle richieste di contributi anche da parte di istituzioni consolidate. La cassa integrazione sta trasformandosi in licenziamenti e questi a loro volta in rischio consistente di conflitto sociale.
In questa situazione emerge il ruolo che, senza clamore, la Fondazione Manodori (come del resto le altre fondazioni italiane) ha svolto in questi anni, in particolare nell’area del welfare: un sostegno all’azione dei servizi pubblici e privato-sociali che, progressivamente, è diventata integrazione, al punto da porsi in certi casi come fattore determinante per l’esistenza stessa di servizi imprescindibili per la nostra collettività.
Dunque, la liquidità scarseggia e le richieste di contributi aumentano.
I valori da tenere presenti sono due:
–tutelare le situazioni di maggiore criticità sociale ed economica (= non interrompere la beneficenza)
– non indebolire il patrimonio (= diminuire drasticamente le erogazioni; se infatti per far fronte alle spese della beneficenza si fosse costretti ad erodere il patrimonio o indebitarsi, si finirebbe nell’impossibilità di erogare beneficenza per diversi anni; le fondazioni hanno infatti l’obbligo, in caso di erosione del patrimonio, di ricostituirlo prima di poter riprendere ad erogare).
A prima vista queste due vie sembrano inconciliabili e paiono condurre verso posizioni opposte ugualmente rischiose (anche se di differente spessore etico):
a) continuiamo ad erogare finché ce n’è (non più di 2 anni): la crisi incombe adesso, il titolo UniCredit potrebbe risalire
Se però la crisi dovesse perdurare e il titolo non dovesse risollevarsi, avremmo l’obbligo di ricostruire il patrimonio dunque di sospendere le erogazioni. È una via che trovo totalmente errata
b) fermiamo le erogazioni per un paio d’anni, ricostituiamo parte del patrimonio con investimenti oculati per riprendere ad erogare.
Qui andiamo già meglio; è un discorso rispettabile, ma la crisi fa sentire i suoi morsi adesso per cui serve a mio avviso una via intermedia, che indico di seguito al punto c)
c) continuiamo ad erogare, ma con tagli drastici, selezionando poche priorità, attestandoci (in attesa di tempi migliori) su una cifra intorno ai 2 milioni l’anno di beneficenza.
A mio avviso andrebbe privilegiata l’area del welfare, includendo in questa espressione non solo il sociale, ma anche il lavoro e l’educazione.
Si dovrebbero valutare quali sono le attività cruciali per la nostra comunità la cui sopravvivenza dipende dal contributo della Fondazione.
La situazione di profonda da un lato crisi della Fondazione e dall’altro del tessuto sociale ed economico della provincia reggiana, impedisce che la definizione di queste priorità possa essere compiuta solo dalla Fondazione, ma chiede che vengano coinvolti tutti gli attori del nostro territorio (da qui l’idea di una lettera aperta alle forze istituzionali, economiche e sociali della provincia).
Questo non significa abdicare all’autonomia della Fondazione: è l’eccezionalità del momento che chiede di compiere scelte concertate. Certo, i contatti bilaterali ci sono sempre stati: nessun contributo di particolare rilevanza è mai stato erogato senza un accordo con la singola organizzazione ricevente. Ma nel momento in cui si rende necessario definire delle priorità e dunque selezionare in modo massiccio dei soggetti riceventi rispetto ad altri, trovo cruciale che questa scelta avvenga alla luce del sole, all’interno di un tavolo che dovrebbe funzionare (come appunto in una situazione emergenziale) da “comitato di salute pubblica”.
Questo processo concertativo rappresenterebbe un’importante opportunità per aprire un confronto su un duplice livello
– i problemi prioritari della nostra provincia (su cui non è scontato che ci sia un consenso diffuso tra i diversi attori)
– la funzione della Fondazione (che spesso è stata una vera e propria camera di compensazione per molte transazioni che il sistema istituzionale, economico e sociale non era in grado di compiere alla luce del sole)
Credo sia venuto il tempo di uscire, tutti, allo scoperto.
In caso contrario la nostra provincia (industriosa, infaticabile, debordante di intelligenze, ma così poco capace di fare squadra) perderebbe un’altra occasione per qualificarsi nel benchmarking territoriale italico e non solo.
*membro del Consiglio generale della Manodori