Di universi distopici la fantascienza ha sempre fornito molteplici varianti, le quali a loro volta sono state nutrimento per l’estro di numerosi cineasti visionari. L’ultimo a far parlare di sè è Gary Ross, che ha adattato per il grande schermo il primo romanzo della trilogia The Hunger Games di Suzanne Collins.
Lo scenario qui immaginato è il frutto della riorganizzazione di un Nord America logorato dalla guerra civile. Per punire gli stati che più di settant’anni prima avevano scatenato uno spaventoso conflitto interno, la capitale della nazione di Panem (l’opulenta Capitol) costringe ogni anno i dodici distretti periferici del paese ad inviare ciascuno due tributi umani – un ragazzo ed una ragazza dai 12 ai 18 anni – affinchè partecipino ad una spietata competizione all’ultimo sangue (gli Hunger Games del titolo), per la quale è previsto un solo vincitore a edizione. La gara viene seguita come un evento mediatico di grande rilievo e, in quanto tale, attiva meccanismi biecamente commerciali come l’interesse di sponsor, la partecipazione dei concorrenti a programmi televisivi e (ovviamente) la cronaca in tempo reale del massacro.
Nonostante le sue quasi due ore e mezza, il film si lascia guardare con attenzione dall’inizio alla fine. Dopo la presentazione dei personaggi e della loro folle società (la cui elite sembra mutuata dai giardini reali di Alice nel paese delle meraviglie e dall’eccentrica fauna umana di Zoolander ) si passa lentamente al macabro reality hobbesiano, dove gli antichi motti homo homini lupus e mors tua vita mea sono applicati in tutto il loro schietto cinismo.
Al di là delle sue interpretazioni metaforiche e sociologiche, The hunger games rappresenta soprattutto un ottimo esempio di cinema mainstream che riesce ad intrattenere con intelligenza e senza eccessi un pubblico non solo giovane.