Danilo Morini
“Questa è roba per Pantioni! Questo è un bell’affare per Pantioni! Gridava con voce stentorea Vincenzo Mignani presidente del Tribunale chiamato, nell’ottobre del 1822, a giudicare un gruppo di carbonari che facevano parte di una loggia, chiamata Sublimi Maestri Perfetti, colpevoli di aver congiurato contro il governo di Sua Altezza Serenissima Francesco IV d’Austria-Este; fra di loro c’erano anche due nomi eccellenti: il primo era Antonio Panizzi – che fu condannato in contumacia e cui oggi è dedicata la Biblioteca Municipale cittadina – e Don Giuseppe Andreoli, che invece non ebbe altrettanta fortuna, finendo decapitato sotto le mura ad occidente del forte di Rubiera, più o meno dove oggi esiste un fornito negozio di fiorista ma nessuna targa a suo ricordo.
Pantioni? Chi era costui, parafrasando un celebre dubbio del manzoniano Don Abbondio?
Antonio Pantioni era il Boia del comune di Reggio ed abitava in città, in una casa datagli dal comune, in via dell’Arcipretura, molto prossima al suo abituale luogo di lavoro. Quel piccolo circuito di strade, che oggi appare pieno di negozi e di vita, aveva invece allora un triste legame con la prigionia e con la morte: vicino alla residenza ufficiale del boia, esisteva a quel tempo all’incrocio tra via Arcipretura e via dei Gobbi – ma con la fronte in piazza Casotti – l’Oratorio dei Frati del Paiolo, così chiamati perché d’inverno distribuivano ai poveri scodelle di minestra che attingevano da un grande paiolo; e su quella che oggi è Piazza Casotti si affacciavano le carceri del Comune, da dove i prigionieri potevano assistere alla messa attraverso una finestra posta proprio di fronte a questo Oratorio, la cui porta veniva lasciata aperta durante le funzioni per permettere ai condannati almeno il conforto religioso.
La casa del boia esisteva ancora ai primi decenni del secolo scorso e Aldo Cerlini, nel suo Storie e leggende dell’Appennino e del Po pubblicato nel 1939, ce ne mostra una fotografia e descrive “la impressione paurosa che faceva a me fanciullo quella casa dalla nera facciata, a cui per la stranezza della via e per l’alta mole degli edifici vicini sembrava non dovesse mai arrivare un raggio di sole”.
In quel lontano ottobre 1822 pare che il Pantioni non abbia dovuto lavorare granché. Per ragioni a noi ignote non fu lui a decapitare Don Andreoli e si limitò a giustiziare i contumaci in effigie, come pare fosse usanza a quel tempo per non lasciare nulla di intentato alla giustizia; ma la sua carriera era stata lunga e gloriosa, culminata con la spettacolare esecuzione per strangolamento in Piazza Santa Maria Maddalena – l’odierna Piazza Fontanesi – di due noti banditi della montagna, il Valli e il Neri.
Pare che ai tempi in cui il Cerlini era bambino, proprio vicino alla porta d’ingresso della casa del boia, ci fosse la bottega – definita dall’autore del racconto stretta e bassa – dove un arrotino sciancato faceva girare ininterrottamente una mola; e siccome nella casa del boia solitamente venivano anche custoditi e tenuti bene in efficienza tutti gli attrezzi del suo mestiere – che comprendevano anche il complesso armamentario degli strumenti di tortura – la fantasia popolare voleva che quell’arrotino li avesse avuti in eredità e che quella mola fosse la stessa che aveva affilato la spada e l’accetta che Antonio Pantioni aveva usato con tanta perizia.
Possiamo immaginare i brividi lungo la schiena che allora dovevano provare i passanti di fronte a questo macaberrimo spettacolo…
Non sono però soltanto questi i luoghi del reggiano legati al triste rito della condanna a morte: in una prossima puntata faremo un giro panoramico nella provincia a scoprire quali altre sorprese in tal senso ci riserva il nostro territorio.