“Sfido la crisi con ago e filo”

Una giovane stilista riscopre la tradizione

Cristina Fabbri

Quando ero piccola mia nonna mi ha sempre raccontato di quando, da giovane, creava capi unici per le “signore bene” che andavano da lei chiedendo i modelli di ultimo grido, coi tessuti migliori sul mercato. E lei lavorava giorno e notte, con la sua macchina da cucire, per realizzare i loro desideri. I vestiti se li faceva in casa anche per lei e, grazie proprio a uno di quegli abiti unici, aveva conquistato quello che poi è diventato suo marito, quindi mio nonno. Forse è anche un po’ per questa storiella (spero di non avervi annoiato) che vi ho appena raccontato – e che mi ha sempre affascinato da bambina – che nei giorni scorsi, durante una vasca in centro a Reggio, non sono riuscita a non entrare nell’atelier “Dictum Factum” di via Guido da Castello 8/h che ha aperto da qualche mese. Dalla vetrina ho scorto la proprietaria, la 27enne Lucia Bassi, con ago e filo in mano, di fronte alla sua macchina da cucire. Tutto intorno manichini, metri da sarta, gomitoli di lana, coni di fili colorati ovunque; poi figurini appesi alle pareti e tanti abiti graziosi appesi alle grucce.

Lucia mi ha raccontato che ha studiato al Polimoda di Firenze, poi ha fatto un master a Milano all’Accademia del Lusso e tirocini in importanti case di moda italiane ma, nonostante la sua preparazione eccellente, si è sentita dire troppe volte “sei brava ma, finito lo stage, non possiamo assumerti perché il periodo economico non ce lo permette”. Quindi si è rimboccata le maniche e ha deciso di non dire addio ai suoi sogni di stilista.

Com’è nata l’idea di aprire un atelier a Reggio?

«Visto che il periodo non è dei migliori e le aziende tagliano, specie gli ultimi arrivati (quindi i più giovani), mi sono detta: “Ci provo, apro un’attività tutta mia, non rinuncio a quello che ho sempre desiderato fare”, ovvero disegnare e realizzare i capi. Una scelta azzardata? Bisogna avere coraggio ogni tanto, io ho scelto di sfidare la crisi».

Ora è boom di catene a basso costo, il suo invece è un negozio “alternativo” per il mondo di oggi.

«Sì ma “tradizionale” se guardiamo al passato quando era la routine acquistare i nostri abiti dalle sarte. E il vantaggio è lo stesso che c’era una volta: una cliente che si rivolge a me avrà un abito unico, realizzato su misura per lei, con tessuti rigorosamente italiani… io punto sulla qualità del prodotto, studiato nei minimi dettagli dall’inizio alla fine. Infatti prima sento cosa cerca l’acquirente – ad esempio se le serve un vestito da sera, per una cerimonia o altro – poi disegno vari bozzetti, varie proposte, acquisto diversi tessuti che poi le mostro quando torna. Il risultato? Un capo che avrà solo lei, rigorosamente fatto a mano e che renderà non omologata chi lo indossa».

Dictum Factum. Come mai questo nome?

«Ci sono troppi “inglesismi” ultimamente, quindi ho scelto un nome latino indicativo di come lavoro: punto al made in Italy e lavoro secondo l’idea del “detto” (tu mi dici cosa vuoi) e “fatto” (lo progetto e realizzo)».

Com’è stata la risposta dei i reggiani? «Positiva, ovvio che ci sono delle spese ma l’attività si è avviata bene. Ci sono anche tanti curiosi che si fermano davanti alla vetrina perché mi vedono all’opera, visto che lavoro con la mia macchina da cucire qui, in negozio, ed i bozzetti sono in bella vista. Una sera un gruppo di ragazzi è passato e mi ha bussato al vetro dicendomi “Ma cosa fai? sei pazza a lavorare a quest’ora? Vieni con noi a fare un aperitivo”».

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