Il diario della crisiLe imprese reggiane perdono terreno: crollano utili e fatturato

Dati allarmanri dall’analisi sullo stato di salute economico-finanziario della nostra economia realizzato da Assindustria con il con la collaborazione della Camera di Commercio

Crollano utili e fatturato, calano sensibilmente i livelli occupazionali, perdono terreno settori chiave come metallurgia, meccanica, elettronica e ceramica. Non è un quadro rassicurante quello fotografato dall’analisi sullo stato di salute economico-finanziario delle imprese della provincia di Reggio realizzato da Assindustria con il con la collaborazione della Camera di Commercio.

Lo studio, curato dal professor Riccardo Silvi, docente di Economia aziendale presso l’Università di Bologna, ha preso in esame performance e trend di 1865 imprese reggiane (appartenenti a 12 aggregati settoriali, dall’industria meccanica al terziario avanzato) nel triennio 2007-2009 e li ha messi a confronto con le dinamiche regionali e nazionali . Ciò che emerge dai dati è che quella di Reggio Emilia risulta tra le province italiane maggiormente colpite dalla crisi.

Una crisi che ha investito in pieno i conti delle società provocando un crollo del fatturato nel trienni preso in esame pari al 12,9%. La contrazione più feroce si è registrata nel 2009 (-18,7%) coerentemente con quanto riscontrato a livello regionale e nazionale. Il calo di fatturato ha interessato tutti i comparti produttivi, mentre nel 2008 il 75% dei settori considerati aveva invece assistito ad una crescita media annua prossima al 10%.

Decisamente allarmanti i dati relativi al fatturato per alcuni settori, a cominciare dalla metallurgia e prodotti in metallo che ha fatto registrare un calo del 29%. Seguono meccanica (27%), apparecchiature elettriche (-21%), autoveicoli (-17%) e ceramica (-16%). Tiene solo il terziario avanzato che è riuscito a bilanciare meglio la crescita del 2008 (+13%) e la contrazione del 2009, perdendo solo l’1,2%.

Una situazione che a partire dal 2009 ha cominciato a ripercuotersi anche sull’occupazione: per la prima volta nel triennio, infatti, le imprese hanno ridimensionato la forza lavoro (-4,7%).

L’unico dato in controtendenza è quello relativo al capitale investito che mostra un andamento in crescita nel triennio del 8,4%. Bisogna però tenere in considerazione l’effetto della rivalutazione monetaria del 2008 e la contrazione del 2,2% dell’ultimo biennio.

La crisi ha lasciato un segno profondo sulla redditività, con gli utili scesi dall’11,7% prima della crisi al 3,2%.  Si tratta di una contrazione confermata sia a livello regionale che nazionale, anche se il comparto provinciale mostra una migliore tenuta. Anche su questo fronte i livelli più elevati di redditività sono toccati dal terziario avanzato (27,5%); seguono le imprese del settore chimico (9,2%), alimentare (8%) e abbigliamento (7,4%). Le perdite più significative si registrano invece nei settori delle apparecchiature elettriche, gomma e materie plastiche e autoveicoli.

Partendo da questi dati il professor Silvi è entrato nel dettaglio della situazione patrimoniale e finanziaria delle imprese reggiane. Situazione che alla chiusura dell’esercizio 2009 si presenta più solida e, anche se non ottimale, risulta comunque migliore rispetto ai valori medi regionale e nazionale. Nonostante ciò la crisi ha allungato il ciclo finanziario: significa che le imprese fanno più fatica a pagare i fornitori e a fare fronte ai debiti.

I problemi sono legati anche alla struttura economica della nostra provincia. Il 61,9% delle società analizzate rientra nella classe delle microimprese seguite al 28,31% da quelle considerate piccole. Le due categorie assorbono quindi ben il 90,4% del totale delle imprese del settore. Il maggiore contributo alla redditività proviene però dalle imprese che rientrano nelle fasce di fatturato più elevate. Sono le grandi imprese  ad avere una maggiore patrimonializzazione, quindi un rapporto di indebitamento meno elevato e una maggiore stabilità nell’equilibrio finanziario.

In conclusione i punti critici rilevati dall’analisi sono la dimensione delle imprese (più sono piccole, più risentono della crisi) e la rigidità del sistema (il capitale investito e la forza lavoro non sono calati proporzionalmente al crollo di utili e fatturato), un valore in caso di crescita ma un grosso limite in periodo di crisi.

Secondo il professor Silvi non esiste una ricetta che garantisca una via d’uscita ad una situazione così complessa ma alcune contromisure vanno prese in fretta: occorre ridurre gli sprechi (l’inefficienza aziendale che è in media pesa per un 30%) e aumentare la competitività delle aziende anche attraverso la creazione di reti d’impresa.

LA SEDIA DA SPOSTARE

“La sedia da spostare” è un memorabile monologo di Giorgio Gaber. E’ la metafora incredibilmente efficace di un’Italia immobile in cui si discute su tutto ma non si riesce a risolvere nulla. E la sedia è ancora lì. Anzi, la sedia rischia di non esserci più dal momento che sul fronte della crescita dal 2000 il nostro Paese è il penultimo del mondo. Peggio di noi solo Haiti. Da queste considerazioni è partito Guido Caselli, direttore dell’Ufficio studi e ricerche di Unioncamere Emilia Romagna. La sua è stata una relazione singolare e particolarmente incisiva che è andata ben oltre un freddo elenco di dati.

“Mentre c’è chi si muove in motorino, chi in auto e chi, come la Cina su una Formula Uno – ha detto Caselli – l’Italia va in bicicletta. Il Paese perde terreno, la sua ricchezza si erode ma il costo della vita è rimasto a livello delle altre nazioni avanzate. Il potere d’acquisto dei tedeschi è superiore del 65% rispetto a quello degli italiani”. Ma secondo Caselli la crisi non è solo economica. “E’ una crisi di senso, – ha spiegato – gli automatismi  che dovevano essere governati dalle regole sono diventati la regola”. Ciò che serve è un vero cambiamento culturale per uscire dal tunnel, invece si continua a discutere. “C’è un rapporto di Unioncamere del 1993 in cui si elencano le cose da fare per la crescita. Sono passati vent’anni, non è cambiato nulla. Siamo qui a discutere delle stesse cose”.

La conferma di ciò giunge anche dall’analisi della situazione delle imprese dal punto di vista della performance: le aziende che funzionano meglio sono quelle che hanno investito nella produttività e nell’innovazione, che garantiscono una migliore qualità della vita sul posto di lavoro; sono le aziende guidate da un management più giovane, che guardano avanti e fanno strategie sul lungo termine.

Nel frattempo, però, il sistema Italia perde terreno. E mentre si continua discutere di ciò che andrebbe fatto, la sedia è ancora al suo posto.

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