E’ recente notizia di un ulteriore ritocco, ovviamente all’insù dell’età pensionabile dei lavoratori del gentil sesso. Non è il primo, e decisamente non sarà l’ultimo. Ormai sono sulla bocca di tutti frasi del tipo: “le generazioni nate dopo gli anni ’80 non vedranno mai la pensione”. O ancora, “in pensione non ci si andrà più”, “il sistema pensionistico italiano è al collasso”, “pagheremo fino alla tomba”.
Potremo passare le nostre giornate continuando con la cantilena del “moriremo tutti”, emulando il Paolo Villaggio nazionale, dove in Fantozzi aveva un rapporto di amore-odio con la propria attività di pensionato. In alternativa l’italiano ha la facoltà di lasciare da parte le tragedie greche ed iniziare a costruire l’ultima fase della vita, ben prima dei 65 (67? 68? 70?) anni.
Sia ben chiaro, la situazione è senza dubbio seria. I tassi di sostituzione oscillano tra il 40 ed il 55%, il che significa che un individuo che andrà in pensione nel 2045 con un’ultima retribuzione di 1500 euro (ragionando ovviamente con il valore monetario del 2011 per semplicità di calcolo), vedrà accreditarsi una pensione statale che oscilla fra 600 e 825 euro.
Esattamente come ci siamo arrivati a questo punto? I motivi sono ovviamente molteplici, alcuni positivi, altri decisamente negativi.
Quello positivo, è semplice e facilmente intuibile: viviamo di più. I tassi di mortalità aumentano, e la popolazione invecchia. La popolazione invecchia ed ovviamente vi sono più pensioni da pagare. Fra i negativi, è doveroso ricordare come le generazioni precedenti si siano mangiate le vacche grasse, e non del tutto sazie si sia mangiate gran parte anche di quelle magre; i baby pensionati di 40 anni con irrisori anni di contribuzione, tassi di sostituzione pari agli ultimi salari percepiti etc.
Tornando al punto iniziale, abbiamo possibilità di immaginare una vecchiaia serena e felice, eventualmente esplorando qualche isola caraibica o dando paghette ai nipotini senza per forza ricorrere poi alla mensa della Caritas, oppure “moriremo tutti”?
Per fortuna le possibilità ci sono, ma per l’appunto richiedono un impegno costante sin dall’inizio della propria attività lavorativa ed un cambio di mentalità che ci permetta di saltare dall’Italia degli anni’80 al mondo del 2011.
Ormai da parecchi anni, è possibile aderire ad una pensione integrativa, chiamata in gergo “previdenza complementare” ossia, una pensione costruita da noi stessi nel corso della nostra attività lavorativa (i più virtuosi possono iniziare anche prima) che ci permetta di arrivare ai fatidici 65(?) anni con la consapevolezza di avere un reddito sufficiente a mantenere uno standard di vita pressoché simile a quello che avevamo durante l’attività lavorativa.
Non voglio snocciolare ogni riforma fiscale avvenuta dal 1992 ad oggi, bensì aiutare i lettori, tramite una sorta di tutorial a capire i benefici della previdenza integrativa italiana.
Si sente spesso dire che bisogna aderire ad una forma di previdenza complementare perché “si sa, le casse degli enti statali sono vuote”. Invece bisogna aderire ad una forma di previdenza complementare perché è matematicamente ed economicamente conveniente, che significa: più guadagno e più risparmio.
Prima di tutto, la scelta del trattamento di fine rapporto. Un vecchio detto economico anglosassone dice “Never put all your eggs in one basket”, il che significa “non mettere tutte le uova nello stesso sacchetto”. Il perché è facilmente intuibile visto che a tutti e’ capitato di far cadere un cartoncino con le uova, senza aver avuto la premura di metterne alcune in un altro cartoncino : risultato tutte le uova rotte e nulla da mangiare.
In pratica, ogni lavoratore dovrebbe spostare il proprio tfr fuori dall’azienda in cui lavora, verso un fondo pensione.
Oltre al fatto che i rendimenti di un fondo pensione hanno una frontiera di rischio-rendimento decisamente più conveniente per il lavoratore, (non per niente il Tfr è stato più volte considerato come un prestito vantaggiosissimo per il datore di lavoro), spostando il tfr lontano dal posto in cui si percepisce il salario, fa si che il lavoratore benefici del principio di diversificazione, ossia di un principio cardine di ogni teoria economica. Il principio di diversificazione è ovviamente riconducibile alle uova suddivise in più sacchetti anziché tutte in un unico sacco. Se domani le uova di un sacchetto si rompessero (ad esempio la ditta per cui si lavora fallisce), un lavoratore ha a disposizione ancora tanti sacchetti per mangiare (i fondi pensione in cui ha investito per l’appunto).
Il sistema complementare segue la cosiddetta regola dell’ETT (esente tassato tassato) ossia se in fase di accumulo, il lavoratore e’ esente, questi e’ tassato in fase di rendimento e di erogazione. Detta in maniera volgare : versate gratis, pagate i rendimenti e pagate quando ricevete le rendite/capitali durante la pensione.
Il primo vantaggio risiede nella “E” del sistema. Il lavoratore ha la possibilità di dedurre, dal proprio imponibile, fino a 5164,57 euro destinati ai fondi pensione. Questo significa che alla denuncia dei redditi, se dovete pagare il 27% di tasse su 25.000 euro, se avete versato per esempio 3000 euro nella previdenza complementare, il 27% andrà pagato su 22.000 euro e non su 25.000 euro. 5164.57, è anche una sorta di limite massimo entro cui è conveniente versare annualmente nella previdenza complementare. Consiglio quindi di non eccedere mai questo limite.
Nella seconda “T” vi e’ l’ulteriore vantaggio dell’aderenza ad una forma complementare. I rendimenti son tassati in maniera leggermente conveniente rispetto ai rendimenti di altre attività finanziarie. Oggi infatti un rendimento finanziario è tassato al 12.5%, mentre un rendimento derivante da un fondo pensione e’ tassato solo all’11% con un guadagno netto di un punto e mezzo. Sarà inoltre interessante monitorare la situazione nel caso, ormai in realtà sicuro, in cui le rendite finanziarie saranno tassate al 20% invece del 12.5%.
Un altro vantaggio risiede invece nell’ultima “T”, ossia la tassazione in fase di erogazione. Le pensioni infatti sono assoggettate ad una aliquota fiscale massima del 15%, che va a scendere con l’aumentare degli anni di contribuzione fino ad arrivare al 9%. Ricordo che la tassazione minima Irpef è attualmente del 23%, il che si traduce in un guadagno fiscale minimo di otto punti percentuali. Inoltre, i redditi già tassati in precedenza, ossia i rendimenti conseguiti dai fondi pensione, sono esclusi dall’imponibile.
Infine, vi è la possibilità di chiedere un anticipo del montante accumulato, con percentuali che variano a seconda della motivazione per cui è stato chiesto l’anticipo. Si va da un 75% senza condizioni per spese mediche gravi, ad un 30% condizionali ad 8 anni di permanenza al fondo per “altri motivi”.
Come si può vedere, un lavoratore deve prendere in seria considerazione l’adesione alla previdenza complementare non tanto perché il sistema Italia preme verso questa direzione o per eventuali scenari apocalittici futuri, ma perché è economicamente e matematicamente conveniente. Sicuramente non è una scelta facile, anche perché è comune il calcolo a breve termine, ragion per cui può risultare efficace affidarsi a seri professionisti che possono ritagliare un piano di investimento a lungo termine, basato sulle attitudini e propensioni del singolo lavoratore.