A me piace starci da sola sulla mia Panda rosa, perché mi perdo tra la musica alta nell’abitacolo e i miei pensieri, e perché osservo scene dai finestrini, soprattutto all’approssimarsi della città, quando il traffico costringe a fermate o prolungati rallentamenti. Poi succede che non sia sempre possibile, e a volte ho ospiti: il più temuto è mia mamma. Se sono al volante io, non si rilassa e critica a raffica le scelte stradali e di gestione del veicolo. Forse si tratta di un retaggio dai tempi della scuola guida, o appena dopo, neo patentata: capita ad esempio che dalla sua postazione provi a schiacciare freni e frizioni immaginarie o avvicini la mano al cambio, sotto il mio sguardo allibito.
Se in tanti ambiti per lei rimango post adolescente – mi pare un modo per sentirsi più giovane e glielo condono volentieri – la guida non fa eccezione. Il peggio è quando decide di interpretare il Tom Tom o il Garmin, a scelta. Io ci provo a resistere prima di sbottare, ma quando la litania dei “perché vai di qui? Ma non metti la freccia? Dobbiamo proprio ascoltare sta musica? Hai il motore imballato! Scala la marcia va là. Se giravi, facevamo prima” si prolunga all’inifinto, il sangue mi si rapprende nel cervello.
Il peggio è il modo in cui lo dice: “ah beh, se ti sembra di aver fatto una strada furba…” come a dire: ma quanto sei fessa. Ma una strada può essere furba? Perché è necessario colorare di un’interpretazione emotiva o morale la scelta di un percorso stradale? Cambia davvero così tanto la vita?
A quel punto smetto di parlare. E poi se ricomincia, litighiamo. Il peggio è stato rendermi conto che più passano gli anni, più replico molti dei suoi usi e costumi, compreso questo: di norma mi piace e mi scopro a sorriderne, fatta eccezione appunto per il ruolo del condor sulla spalla dell’autista.