Venerdì 30 novembre appuntamento di redazione al Centro Culturale di via Hermada. Passando accanto al Teatro della Cooperativa non posso non vedere la lunga fila di persone che vi sostano davanti, in buon ordine, lungo il marciapiede. Capisco subito di che si tratta. Il tam tam del passaparola lavora da giorni e so che il maestro, a Milano per le prove del Lohengrin per la prima alla Scala di Sant’Ambrogio, ha accettato l’invito del nostro regista Sarti, miracolosamente incontrato in qualche punto del mondo, di venire a parlare di quest’opera al Teatro! Al nostro Teatro!
Un sospiro di invidia per chi è in fila, dunque, e via, nel Centro Culturale a lavorare. A un certo punto, nell’ angolo dove i volenterosi redattori cercano di quadrare notizie e scritti, si sente, nitidissimo, un uomo che parla. Sembra che sia nella stanza accanto. Guardo i colleghi che non si scompongono più di tanto. “E’ il teatro, è il teatro” si limitano a dire. Ma come? Ma se il teatro è cinquanta metri prima? Pazienza, si continua. Con la testa che un poco è lì ed un poco in questa benedetta e irreale stanza accanto. Poi l’uomo tace, e comincia la musica. Lunga, lunga, sottile, limpida. Una esondazione che non puoi fermare e che ti sale attorno piano, piano, inarrestabile. E quando arriva alla bocca cominci a nuotarci dentro. Noi si lavora ancora meno e si sorride. Qualcuno dice “E’ il Preludio”. E non si lavora più. Momento di silenzio, ripresa dei discorsi, altra ondata musicale. Stavolta è più forte, più trascinante. Non ti sale attorno, ma ti prende subito e ti trascina senza che tu possa fare storie. Un fiume, una folla, una foresta di suoni che cammina. L’amico di prima dice: “E’ la Processione di Elsa”. Allora io chiudo la borsa, saluto tutti, ed esco a cercarlo, il fiume. Lo trovo subito! Il cortile! Le voci e la musica non venivano dal teatro, ma dal cortile che sta dietro a tutte le case dell’isolato e dove ci sono uno schermo e un diffusore acustico di qualità. E un centinaio di sedie bianche. E, nel buio e nel freddo della sera dell’ultimo giorno di novembre, una cinquantina di persone. Sedute. Giovani e non più giovani. Non ci stavano tutti in sala, e sono qui. Dopo qualche attimo vedo che quasi tutti hanno enormi coperte amaranto poggiate sulle ginocchia e avvolte attorno alle spalle, e che, se voglio, di queste coperte ne posso avere una anch’io.
Lo voglio. La prendo. Mi seggo, incredulo. Non fa più freddo, non fa più buio. Il fiume sonoro ogni tanto ha come dei bagliori che anticipano la cascata liberatrice della Marcia Nuziale, ma per ora ti avvolge e ti incalza, ti trascina, ti chiama e ti risponde senza che tu possa farci niente. Si sta bene qui. Ma a un certo punto un brusio, un fremito percorre il cortile in ascolto. E due uomini passano nel corridoio centrale della piccola sala improvvisata a cielo aperto sorreggendo, in fila indiana, una strana portantina, uno strano scatolone di cartone. Che lascia dietro di sé una scia inconfondibile anche se l’ultima volta che l’ho sentita ero ragazzo, nella mia bassa, in un’altra sera di novembre e di emozioni. Si, è lui! Il cartone avvolge e ricopre una enorme marmitta piena di vin brulé alla cannella!
Defilato, arriva subito anche il vassoio del panettone. Ma i sorrisi, gli apprezzamenti silenziosi, sono tutti per lui, per il vino caldo che nessuno aspetta seduto come chiedono i volontari del servizio, ma va a prendere con faccia compiaciuta al grande tavolo sul quale la preziosa marmitta è stata appoggiata. Me lo gusto anch io, indugiando con il bicchiere ben caldo tra le dita intirizzite. Quasi quasi ci farei il bis. E penso che, se fosse qui, l’eterno rivale, il mio Verdi, prenderebbe anche lui la sua porzione di vin brulé e sorriderebbe. Noi padani il Sacro Graal non lo abbiamo mai perso di vista. Ce lo teniamo sempre a portata di cuore. E d’inverno lo riempiamo di vino. Caldissimo. Alla cannella.
Primo Carpi