“Un contadino nella metropoli”. Così Prospero Gallinari si era autodefinito nel suo libro autobiografico, confermando così la versione di chi a Reggio lo aveva conosciuto prima che, tra il 1970 e il ‘71, abbracciando la lotta armata, si trasferisse a Milano per entrare in clandestinità. Non un feroce assassino, quel figlio di un ex partigiano sappista, ma piuttosto un bravo soldato, un idealista; non una mente affilata capace di elaborare analisi raffinate e strategie politico-militari spietate, ma un comunista guevariano che aveva sviluppato un percorso lineare verso la rivoluzione proletaria la cui scintilla non poteva altro che essere accesa da azioni di avanguardie armate.
Gli ex amici della Fgci reggiana raccontano delle sue prime azioni, tra goliardia e provocazione, come quella volta che in occasione dello sciopero alla Standa lui venne incaricato di incatenare di notte le saracinesche per evitare che le commesse fossero obbligate a timbrare il cartellino. Il gruppetto, il mattino dopo, si recò in via Emilia per godersi lo spettacolo ma trovò le commesse al lavoro: Gallinari non aveva bloccato tutte le entrate. Per questo i “ragazzi” di allora – gli ex compagni “figciotti” ma anche quelli che frequentavano il collettivo dell’appartamento di via Emilia San Pietro (anarchici, cattolici del dissenso, psiuppini, ecc) – hanno sempre stentato ad attribuire a quella persona quasi “naive” un ruolo organizzativo nel delitto che ha fatto per sempre perdere la verginità all’Italia Repubblicana e cambiato l’andamento della nostra Storia, inibendo per sempre qualsiasi speranza di un’evoluzione progressista di stampo socialdemocratico. (Fu lo stesso Gallinari, a conclusione del primo “Processo Moro “ad ammettere che lo scopo delle Br fu quello di colpire il compromesso storico, con una occulta sintonia con gli scopi di apparati dello Stato e di poteri politici sedenti su entrambe le sponde dell’Atlantico).
Non potevano certo immaginarselo quei “ragazzi” che, – dopo il convegno di Pecorile dell’agosto ’70 e in un crescendo di azioni violente, dal sequestro del giudice Mario Sossi alla rocambolesca evasione dal carcere di Treviso – Gallinari nel marzo del 1978 sarebbe stato il principale carceriere di Aldo Moro. L’ex pioniere del Pci reggiano era diventato stretto sodale di Mario Moretti, feroce ed enigmatico capo della colonna romana, strutturata militarmente come un “cubo d’acciaio”, come spiegherà Gallinari. Mentre l’altro reggiano Alberto Franceschini era in galera dal ’74 con altri capi storici come Curcio, il capo dell’“ala sanguinaria” Moretti sedeva nel Comitato esecutivo brigatista con altri nostri conterranei Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. E i tre Br reggiani saranno, armati, in via Fani quella tragica mattina del 16 marzo 1978. E sarà Gallinari a fare da scorta al presidente della Dc fino al nascondiglio delle Br, il carcere del Popolo (di via Montalcini 8?). E sarà Gallinari a gestire l’ostaggio in prima persona insieme a Moretti per i 55 giorni del sequestro, fino all’epilogo del 5 maggio e al martirio di Moro.
Quando sarà arrestato, dopo un sanguinoso conflitto a fuoco dove rimarrà ferito alla testa, Gallinari dovrà essere tenuto sotto protezione per anni: per lungo tempo si è ritenuto che fosse lui “l’ingegner Altobelli”, colui che materialmente massacrò a colpi di mitra il leader Dc. Una verità diversa l’ha raccontata Moretti solo nel 1993, in una serie d’interviste in carcere a Carla Mosca e Rossana Rossanda, scagionando di fatto il “Gallo” e in questo venendo poi seguito a ruota dalle dichiarazioni di altri “ex”.
Gallinari, dal canto suo, in tutti questi anni ha confermato solo verità ufficiali, quelle storicizzate nel corso delle indagini e dei processi. Né sul “delitto infinito” ha raccontato versioni alternative o fornito ulteriori dettagli per far luce su moventi, depistaggi, complicità segrete, coperture internazionali e “dettagli” ancora misteriosi (Chi c’era in via Fani? La prigione di Moro fu per qualche tempo in via Gradoli? Chi ha davvero sparato? Che contatti c’erano tra la fazione morettiana e gli 007?).
“Non, je ne regrette rien”, potrebbe essere la colonna sonora della seconda parte della sua esistenza. Ed era il 23 ottobre del 1988 quando Gallinari, con altri sette brigatisti, dalla prigione dirama un documento di sei pagine nel quale si ammette la sconfitta del partito armato, del progetto rivoluzionario brigatista e, prendendo le distanze da nuove frange combattenti, proclama che <la lotta armata contro lo Stato è finita>. Una resa senza condizioni, ma anche senza rimpianti. Si conclude proprio con quel documento l’autobiografia data alle stampe nel 2006: un libro scritto per lo più alla prima persona plurale, quasi a significare che la presa di responsabilità storico-politica che rappresenta è comunque collettiva ed è fatta rispetto ad un progetto collettivo, fallito. Nemmeno quando parla, in un breve paragrafo, dell’uccisione di Moro riesce a togliersi la divisa, e guardare a se stesso e all’ostaggio che sa di star per morire con compassione e dolore. “O scoppi o razionalizzi l’occasione – scrive -. E si razionalizza anche il compimento, ma senza tranquillità, in uno stato d’animo ben diverso, che ti fa guardare in faccia la fine, con tutto ciò che essa comporta e significa… Mi guardo intorno. Osservo la casa, la prigione e le tracce dell’operazione appena conclusa”. Stamane Gallinari avrà razionalizzato ciò che si andava compiendo mentre stramazzava sul pavimento gelato del garage? Mentre si spegneva si sarà pentito per davvero, nel senso etico-morale che molti in questi anni avrebbero voluto, oppure sarà caduto da soldato, tranquillo come chi pensa di non essere stato un vigliacco? Avrà capito che forse era troppo tardi per dare un contributo alla Storia, non negativo come degli anni ’70, ma di verità per i posteri o si sarà sentito soddisfatto della narrazione para-mitologica di cui è parte? Avrà accettato la morte pregando come Moro, o si sarà guardato intorno pensando che l’operazione era conclusa anche per lui? Non lo sapremo mai, nemmeno questo.