Meditazioni sociali ferragostane

horrorLe città svuotate, che ad alcuni possono causare un terribile momento di horror vacui cui correre ai ripari raggiungendo spiagge congestionate, lungi dal portarci ad un periodo di assoluta quiete mentale possono stimolare in noi, al contrario, una sorta di utili riflessioni riguardo a come le stiamo vivendo: fuori dal frenetico circuito del quotidiano, infatti, vuoi per il tempo finalmente libero per ragionare, vuoi per le strutture messe a nudo o per l’anticipazione – ora possibile – di quello che ci aspetta alla ripartenza di settembre, magari riusciamo a scorgere il meccanismo che regola la nostra vita sociale, nel momento in cui essa rallenta.

E a volte questo meccanismo ci appare piuttosto mancante; proprio come una trottola che fino a quando è in movimento resta in piedi, a bocce ferme una disamina un po’ spietata rischia di scorgere diverse falle. La vita collettiva di oggi, messa a confronto con quella dei decenni passati, ci appare – e crediamo di non essere ingiusti – piuttosto carente. E non vogliamo neppure cominciare il discorso dell’isteria collettiva che ha trasportato i nostri cervelli sul web mentre le nostre scarpe percorrono, in realtà sempre meno, marciapiedi sempre più dissestati: non basterebbe un corso di studi.

No; prendiamo ad esempio invece alcuni servizi alla collettività che fino a qualche anno fa davamo per scontati. Ad esempio, il servizio di raccolta dei rifiuti. Oggi fa molto fico utilizzarlo a mo’ di arma elettorale, e da Palermo a Torino è indicato come un chiaro segnale di buon governo, da una decina di anni a questa parte; ma sono in pochi quelli che si interrogano seriamente sul funzionamento di esso, sui costi, sulla logistica che richiede. Prendiamo l’AMA: è corretto paragonare i risultati della raccolta dei rifiuti, differenziata o no, diciamo di Parma a quella di Roma? Si consideri che Roma non è una città: ha più le dimensioni di una intera regione, e questo solo considerando i soli stretti confini del Comune, non parliamo dell’hinterland cui ragionevolmente dovrà provvedere la stessa ditta.

Quale esercito di operatori, quanti battaglioni di mezzi pesanti dovranno operare per convogliare, dissezionare, smaltire gli scarti di cinque, sei milioni di persone, considerando la somma tra residenti, pendolari e turisti? Noi guardiamo alle nostre viuzze e popolazioncine locali e osserviamo già come i bidoni siano sistemati non secondo logiche igieniche ed abitative, ma quasi esclusivamente in base alle esigenze dei mezzi di raccolta: sui marciapiedi, sulle piste ciclabili, di fianco alle strisce pedonali (aspettate, ne parliamo dopo di queste). Metti un bidone comodo alla strada e vengono da due quartieri limitrofi a riempirtelo, in auto, per non fare dieci metri a piedi fuori dal proprio uscio: hai un bel parlare di tariffa puntuale, qui saresti in sanzione ogni minuto. Il Comune taglia sui prezzi?

Le partecipate riducono personale, mezzi, tempistiche, orari. Una volta il camion della nettezza urbana non lo vedevi a meno che tu non fossi nottambulo: ora te lo ritrovi in mezzo agli zebedei a bloccare il traffico già congestionato dalle 8 alle 10 del mattino, così non ci sono tariffe notturne cui fare fronte. Strade strette, mezzi grandi: addio. Questo è il volto di un servizio che non si è affatto evoluto di pari passo con le esigenze dei cittadini; ovvie le cause, non per questo meno spiacevoli. E a proposito di orari. Da reggiani, dovremmo conoscere la genesi di cose che oggi – a meno che non guardiamo da vicino – diamo per scontate, come ad esempio gli asili, nido compresi.

Che da servizio praticamente su base volontaristica e sperimentale si sono evoluti sino a diventare una struttura che oggi è in grado di recepire la quasi totalità delle richieste delle famiglie presenti sul territorio. Attenzione, però: per capire l’istituzione bisogna fare un passo indietro. La nascita degli asili nel nostro Paese risale al 1850 e per molto tempo essi rivestirono un puro ruolo assistenziale: gratuiti, servivano a sopperire alle forze mancanti delle famiglie, perché troppo povere, sia che il bambino fosse abbandonato in forma anonima, sia che fornissero sostegno recuperando tempo a favore della donna che così poteva cercare un lavoro. Oggi, costi, modalità di accettazione, numero delle strutture, orari di apertura del servizio lo rendono non fruibile a tutti e le famiglie debbono ricorrere all’opera di quello che è un fenomeno in crescita: quello degli asili a domicilio.

Sia che si tratti di tagesmutter certificate e cooperativizzate che di baby sitter fai da te, stiamo sui 5 Euro all’ora – praticamente, quello che guadagni lo rispendi lì, e non sapresti come altro fare, specie per le fasce a basso reddito. La dissoluzione della rete familiare e la sparizione delle nonne, partorendo in età sempre più avanzata o a seguito di immigrazione, ci ha portati sin qui. Il servizio si è evoluto con i richiedenti? No; tant’è vero che si ricorre a servizi particolaristici. E gli orari dei posti di lavoro non aiutano; se l’obbligo di lavoro è dalle 8 alle 13, capita spesso che l’ingresso a scuola e l’uscita coincidano.

Come si fa? Mah! I “tempi lunghi” sarebbero una soluzione, ma sono rari, rarissimi. Del tutto inadeguati alle necessità moderne. Vogliamo parlare di strisce pedonali, certo. Posizionate immediatamente a ridosso di rotonde, comodissime alle biciclette dalle quali i velonauti piombano sull’attraversamento ai 40 all’ora in barba a qualsiasi capacità di percezione e di frenata dell’automobilista; tu sei lì che guidi, dall’angolo della rotonda, spesso occultato per via di frasche, targhe commemorative, installazioni sedicenti artistiche, campeggi in piena regola, un povero pedone credendo di essere nel sicuro attraversa sulle zebrate. O il ciclista sbuca in una frazione di secondo. Oppure, perché le fermate degli autobus sono tutte dietro alle strisce? Se fermassero davanti a esse, il veicolo che segue potrebbe vedere i viaggiatori che scendono e cominciano ad attraversare la strada.

Se lo fanno dall’altra parte, sono nascosti alla visuale dal corpo del mezzo pubblico; tu superi, pur a velocità controllatissima, il bus, sbuca il bambino di corsa, tragedia. Evitabile? Sì, con cognizioni logistiche che vanno cambiate in una città in cui non transitano più come negli anni ’70 dieci, venti, cento veicoli all’ora per ogni strada, ma cinquemila, ottomila. Le strisce vanno messe in un altro posto. Non si sono evolute assieme alla popolazione. Colpo di grazia? Se negli anni ’60, ’70 potevamo contare, in caso di difficoltà abitative legate al reddito, su di un discreto numero di case popolari, oggi – dopo trent’anni in cui le politiche in questo senso sono state pressoché abbandonate – vediamo da un lato cittadini lamentarsi che i più poveri (spesso migranti) hanno diritto alle rare case popolari più spesso che non gli autoctoni (e vorremmo vedere che così non fosse, ci sarebbe qualcosina di profondamente sbagliato), mentre dall’altra i Comuni dismettono il patrimonio preesistente svendendolo in aste ai privati compratori, alienando assieme agli oneri anche il servizio nell’ansia di rimpinguare casse sempre più lacunose.

Intendiamoci: facile fare polemica, non è questo il nostro scopo; conosciamo bene le difficoltà delle casse pubbliche e ben sappiamo come questi problemi nascano perlopiù dalla sempre più grave mancanza di gettito sufficiente a fornire servizi. Quello che ci sembra interessante è notare che gli esempi sopra delineati – ma potremmo citarne un’altra dozzina – si sono andati involvendo anziché evolvendo col tempo e sono sempre meno in grado di adempiere le funzioni per le quali sono nati; e sembra che, se un tempo le esigenze che li hanno formati sono sembrate tanto irrinunciabili da mettere mano a fantasia, volontà e tasche, certo meno piene di quanto non siano oggi, oggi si faccia fatica a pensare le soluzioni in maniera proporzionale ed efficace. Potenza della modernità.

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