Sulla spiaggia con le scarpine allacciate per il lungo viaggio che avrebbe dovuto affrontare. Disteso inerme, quasi come se stesse dormendo sulla sabbia. La storia del bambino profugo siriano, annegato davanti alle coste di Bodrum, in Turchia, rimbalza su siti, blog e giornali con immagini e video. Difficile trattenere le lacrime. Difficile trovare parole che non sappiano di retorica. Rabbia per la certezza che questa immagine farà notizia per qualche giorno e poi nessuno vorrà più sapere quale storia ha portato a raccogliere un piccolo cadavere adagiato dalle onde sulla spiaggia.
Perché le storie reggono finché suscitano stupore, disgusto, angoscia, ma poi vengono abbandonate quando non sono più in grado di provocare emozioni e vengono rimpiazzate da altre. La cronaca e la documentazione sono invece il punto di partenza irrinunciabile per indagare il fenomeno oltre il sensazionalismo e continuare a interrogarci sulla complessità delle migrazioni, di chi abbandona tutto, di chi mette il proprio figlio dentro la stiva di una barca, dentro la pancia buia di un tir, di chi si avvia lungo un tunnel verso un ignoto susseguirsi di frontiere che lo respingono. Fili spinati. Muri. Il razzismo si sta manifestando in varie forme.
In Italia la Lega chiede il filo spinato elettrificato. I poliziotti della Repubblica Ceca hanno marchiato con pennarelli indelebili dei numeri di identificazione sulle braccia dei profughi, anche bambini. Razzismo di chi si volta dall’altra parte e dice “non è colpa mia”. Così avvenne per gli ebrei deportati nei campi di concentramento. Come dice Bauman, il presupposto del nazismo era quello di “purificare” la popolazione germanica dalle “vite senza valore”, vite inutili che potevano essere eliminate perché la loro sopravvivenza sottraeva energie, denaro, risorse e cibo alle altre vite, quelle che avevano valore.
Nei commenti prevale sempre il numero, la quantità, le migliaia di minori migranti sbarcati sulle nostre coste, ma nella quantità si perdono le storie dei percorsi umani che sono nati da motivazioni non certo desiderate. Erano “persone” e diventano “stranieri”, numerati, smistati, scomodi intrusi, strappati alla società di partenza, estranei a quella d’arrivo che li tollera con diffidenza, pregiudizi, stereotipi o aperto rifiuto. Cancellazione del diritto alla speranza, al futuro, al progetto, alla vita stessa.
Queste immagini mettono in gioco la nostra responsabilità di “vedere”. Perché la responsabilità non è mai un principio astratto o un atteggiamento emotivo, ma ha sempre una dimensione politica. Hannah Arendt sottolineava come lo sguardo sia decisivo per la nostra responsabilità davanti al mondo e alla storia. La filosofa denunciava la diffusa omissione che si traduce in deresponsabilizzazione e ci rende “complici” del male ogni volta che qualcuno si sottrae alle proprie responsabilità. Assumiamo allora una responsabilità precisa: non dovere mai più rivedere immagini come queste.