Valentina Barbieri
I Maya allineavano i perticoni alle braccia del Sole e di lui si fidavano. Solstizi ed equinozi dettavano le angolazioni di un mondo che non pretendeva ancora di essere saccente. Il passo delle ore, la giungla, il caldo, le alte ziqqurat, i campi di pelota, i morti. Poi, i calcoli. Le geometrie, i labirinti che hanno un senso, le gradinate in pietra, i cicli che si chiudono e si riaprono. Il silenzio, la veglia, il desiderio. Le zone hotelere, il Cocobongo di Playa del Carmen, i bagni in laguna fatti per portarsi a casa un selfie dai Caraibi li lascerò descrivere ad altri. Io vi parlerò del mio Messico partendo da cinque corde per stendere i panni.
Puerto Morelos, direzione Cancun. 3 gennaio. Fa caldo, il mare è mosso. Una signora si prepara a stendere i panni, srotolando dalle mani cinque corde colorate nel piccolo patio davanti a casa. La vedo e mi chiedo perché le incroci tutte cinque e non le stenda una parallela all’altra. Lo fa in silenzio, in piena solitudine e non contraccambia lo sguardo. È ora di pranzo: in spiaggia servono dei margarita frozen e del latte di cocco. Lei sembra non preoccuparsene. La casa è povera, forse di pescatori. Le corde abbarbicate tra di loro si giustificano per la mancanza di spazio. Quando torno davanti a quella casa tre ore dopo la vedo lì, ancora. Sta vegliando i panni stesi con occhi persi nel vuoto seduta su una sedia di plastica. Accanto il marito, che legge il giornale. Con testa china e i piedi scalzi alzati da terra. Ho visto messicani leggere il giornale anche nella giungla, a Chichén Itzá. Tenere in mano un quotidiano l’ho sempre ritenuto un atto di intimità e di veglia sulle cose che capitano veloci. I Maya l’hanno resa una scelta di vita. Contare le ore, stare a muso in su, attendere, interpretare i presagi, seguire i cicli, andare lenti, avere speranza. Chi vinceva in combattimento veniva sacrificato. I Maya ci insegnano a vincere per morire. Proprio a noi che vinciamo per salvarci, che confondiamo la gloria con la potenza, che siamo così tenacemente omerici europei.
Villaggio di Punta Allen. Ancora un filo per stendere i panni da cui pende un orsacchiotto bianco con la testa a penzoloni a sinistra. Lo vedo fuori da una delle prime baracche di pescatori che si incontrano arrivando da mare. I coccodrilli, le aquile, i cormorani, le acque cristalline, le tartarughe, i delfini non hanno lo stesso volto misterioso di questo orsacchiotto. Loro sì che sono oggetti turistici alla stregua dei flash accaniti dei turisti, l’orsacchiotto no. Punta Allen è il luogo di ristoro di una delle tappe più frequentate dello Yucatàn: la riserva naturale di Sian ka’an. Gli abitanti di Punta Allen, circa quattrocento, vivono di turismo e pesca. I turisti entrano ed escono dal villaggio per sfamarsi, farsi le foto in riva al mare sotto le palme e lungo la fila di barche ormeggiate, poi scompaiono. I bambini ti sorridono, per strada: chi sfrecciando su un triciclo, chi andando a procurarsi l’acqua con una tanica in mano, chi giocando a pallone scalzo. C’è una ragazza ventenne che ha mollato i sobborghi di Città del Messico per venire a fare i caffè a Punta Allen da sola. Se ne sta sotto un piccolo chiosco tutto il giorno, attendendo i passanti con la moka carica. Le giornate passano lente, sulle amache appese fuori di casa, nascondendosi dietro le zanzariere, stando seduti a un tavolo di plastica e fissandosi in volto. Per ore, in silenzio. I bambini vanno a scuola e attendono che cali il sole. Alcune case diroccate aspettano un acquirente, cadono a pezzi o nascondono tesori. Come una Madonna che ho scovato mettendo il muso dentro ad un finestra socchiusa. Le lavatrici in disuso, le lanterne con i vetri spaccati, le scale a pioli senza un padrone, i pannelli solari e l’antenna montati su un tetto pericolante, le auto troppo moderne per non sembrare fuori luogo, l’orsacchiotto bianco. Silenzio, veglia, desiderio. Per altre suggestioni chiudete le guide turistiche.