Alzi la mano chi, dopo le recenti disavventure facebook, faccia ancora finta di credere all’era digitale come a quella di maggior portata democratica e acculturante. Specialisti di ogni branca del sapere ormai e ricercatori ai confini della multidisciplinarietà, ci avvertono del contrario.
Un’immersione acritica, entusiasta e scodinzolante dei social media, così come oggi quella in cui ci si sta crogiolando, pone infatti una serie imbarazzante ed epocale di problemi. Di ordine morale: l’uso di iphone come ulteriore corpo intermedio tra sé e la realtà induce spesso i membri delle nuove generazioni a comportamenti vieppiù deresponsabilizzanti (dalla fase rettale a quella “retale”, cioè l’importante non è interagire coi fatti e gli umani circostanti bensì essere soggetti attivi della condivisione online, “mettere in rete” dunque).
Di ordine culturale: il frasario degli studenti e più in generale dell’homo sapiens si inaridisce di migliaia di vocaboli all’anno (sono dati dei linguisti) perché l’uso dell’italiano sta regredendo ad una dimensione ideogrammatica (pre-alfabetica e post-geroglifica) con l’invasione di emoticon, abbreviazioni, stranierismi, neolessicismi e “apericene” varie, mentre a livello cognitivo l’utilizzo delle capacità di connessione e apprendimento è immiserito dalla facilità con cui si accede al sapere, attraverso le piattaforme virtuali. Che non significa sviluppo intellettuale bensì l’opposto. Senza più un portatile, protuberanza enciclopedica a portata di clic, il re è nudo, ovvero l’interlocutore ha notevoli difficoltà nell’imbastire un pensiero compiuto di media complessità.
Di ordine politico: anche i primissimi sacerdoti del culto 2.0 si buttano oggi sull’agnosticismo internet in attesa degli eventi. Il web non farebbe infatti prolificare gli spazi democratici così per partogenesi, ma li ridurrebbe per criogenesi neuronale. Perché la polis non si vive assolutamente più nei confronti, nelle piazze o attraverso processi dialettici verbali e/o fisico-personali ma solo ed esclusivamente attraverso rituali amplificati e rarefatti di solitudini di massa. Che aggravano da una parte lo scontro a priori tra fan opposti delle sopravviventi riserve ideologiche, dall’altra invece rafforzano il senso di appartenenza a prescindere attraverso il subdolo meccanismo del compiacimento settario: la cosiddetta “like-crazia” (likeo o lecco, dunque sono). Con buona pace della pratica critica.
Di ordine sociale: si dà il proprio gradimento non in base al contenuto di volta in volta giudicabile ma se pre-rispecchia la mia professione di fede o se il postatore più o meno seriale appartiene ad un membro della mia tribù: e più il capobranco risiede nelle alte sfere del clan di turno, più viene like-eggiato dalla consorterie liquide e cangianti. Cosicché magari anche le deiezioni social del capo possono essere in grado di ottenere più gradimento della (improbabile) perla dello sconosciuto o meglio, non-riconosciuto. Con buona pace in questo caso della sbandierata “meritocrazia”. Aprendo una voragine al relativismo delle opinioni, all’equiparazione, per pervicacia e quantità di ogni fonte ed individualità. Laddove per relativismo non intendiamo la sana arte del dubbio preventivo che deve sottendere ad ogni analisi concettuale (da Cartesio a S.Agostino) ma la totale decontestualizzazione di pensiero e disciplina a fini, appunto, “social”. Sicché il legiferar sarà sempre più arduo in questo mare iperconnesso di naufraghi disconnessi.