Riassunto delle puntate precedenti: nel maggio 2014 un gruppo di operatori culturali (o giù di lì) perora al futuro sindaco la causa del non-rinnovamento di un assessorato alla Cultura in nome di una gestione meno propagandistica e più liberale (anche economicamente) dell’offerta ludico-educativa a vantaggio della cittadinanza tutta. Basta mungere le pubbliche mammelle, recita il riassunto della missiva, sì alla Fondazioni miste ed ai capitali privati da investirvi. Tra i firmatari anche Davide Zanichelli (oggi presidente di Palazzo Magnani, partecipato dall’ente locale Comune di Reggio e che gestisce, tra l’altro, Fotografia Europea e Restate). Il sindaco, che sarà ed è Luca Vecchi, si tiene la delega alla Cultura non nominando alcun titolare. Ma all’orizzonte, dopo proclami e conferenze stampe, le sinergie parrebbero sempre quelle; mecenati o società non afferenti l’area pubblica volonterosi di impegnarsi per elevare i cartelloni culturali e sgravare le municipalità all’osso, non se ne vede nemmeno l’ombra. Si apre allora il capitolo del rapporto contenitori-contenuti. (Qui la prima e la seconda puntata)
Va dato atto al sindaco poi eletto, l’attuale Luca Vecchi, di essersi trovato, restando sul percorso culturale, ad un bivio non semplice: dovendo timonare l’ente locale tra i marosi di crescenti ristrettezze economiche, o dare un taglio netto a quei settori (come appunto la cultura) considerati erroneamente secondari perché non dialoganti direttamente con la pancia dell’elettorato (e abbandonare come zavorre nella bufera molti beneficiati dalle generose consulenze di un tempo a lui precedente) o avviare un dialogo coi soggetti attivi fino a ieri nella gestione del sapere locale. All’insegna dello slogan “salviamo il salvabile” e magari qualcosina di più. Quel “qualcosina di più” è pure quantificabile: per quanto riguarda il capitolo delle spese correnti, il bilancio comunale 2015 alla voce cultura, prevedeva spese per 5 milioni e 937mila euro (500mila euro solo per il rifacimento del teatro Ariosto), mentre il 2016 si è attestato a 6 milioni e 284 mila euro, con un incremento del 5,85%. Il fronte degli investimenti invece (alla stessa voce di cui sopra) parla di un 2015 con 1 milione e 110mila euro ed un 2016 con 2 milioni e 508mila, cioè una crescita del 125%.
Peraltro Vecchi diventa primo cittadino nel contesto di un inevitabile valzer di poltrone, essendo in scadenza naturale di mandato presidenti e direttori di gran parte delle istituzioni culturali (coi Teatri in pole position) della città ed in quello di un profondo (per i detrattori solo di facciata) restyling dell’ente pubblico. A partire dalla legge Delrio sul riordino delle Province semi-abolite, che a Reggio restando in argomento, avrebbe potuto significare la morte per decreto di quel Palazzo Magnani (già al 100% della Provincia) e sempre gestito con dignità anche espositiva. I Musei, retti da Elisabetta Farioli (dove però gode di una certa autorevolezza anche il dirigente Massimo Magnani) rappresentano l’investimento più cospicuo del 2016, 1 milione e 816mila euro, con gli imminenti lavori di rifacimento del secondo piano del Palazzo che ospita le nostre collezioni, poi le Biblioteche con 521mila euro ed il cantiere di rifacimento dell’ingresso e del cortile della Panizzi retta dal dirigente delle Attività culturali Giordano Gasparini. Per non parlare del progetto Chiostri di San Pietro (super cantiere al via entro Natale) con risorse di 3 milioni di euro arrivati da un bando europeo attraverso la Regione e dei 14 milioni di euro per la Reggia di Rivalta (500mila euro anche al Maurizano) nel quadro del progetto del Ducato estense “strappato” al Ministro Dario Franceschini. Insomma, la spinta per rimettere a nuovo alcuni dei principali contenitori di intrattenimento e formazione, non sembra difettare.Il problema è che a sedi espositive ristrutturate e rese attrattive da questi investimenti rischiano di corrispondere contenuti di qualità discutibile.
E i contenuti, in base a quale idea di cultura vengono selezionati? I decisori della cultura, come vengono selezionati? Siamo ancora al manuale Cencelli, dove gli amministratori più influenti si appaltano un pezzo in base ai propri gusti personali? Il nitrito dei cavalli barbarici del Ferretti ad esempio (riproposto per la quinta volta in sette anni) potrebbe trovare il meritato riposo. O c’è la volontà (basterebbe il desiderio) di voltare davvero pagina davanti all’evidenza di un crescente disamore dei cittadini per la cosa pubblica e di un generale abbassamento della qualità? Reggio però paga da tempo immemore (probabilmente dall’anno Mille quando da queste parti giganteggiava Matilde di Canossa) la mancanza di una specifica identità in grado da una parte di mettere in connessione tutte le anime della sua multiforme realtà, dall’altra di essere polo turistico spendibile a livello nazionale. E paga anche l’assenza, almeno fino a tempi relativamente recenti, di un’università in grado di “sprovincializzarla” nel corso dei secoli.
Ma il ‘900, certo più delle seicentesche suggestioni estensi quando Reggio era periferia molto più di quanto lo sia oggi, è stato comunque un secolo in cui in questa città si sono dati da fare diversi laboratori di natura socio-economica e socio-politica, basti pensare all’enorme peso dei partiti socialista e comunista, alla nascita della cooperazione partendo dal mondo rurale fino alla controversa pagina della Resistenza. E su questo caleidoscopio di “modelli” (più o meno edulcorati da partito e ideologia a fini propagandistici), forse si dovrebbe puntare per ri-creare un’identità attrattiva che faccia del XX secolo reggiano la particolare eccellenza rispetto alle genericamente più fortunate (da un punto di vista storico) province limitrofe. E mettere a sistema (horribile dictu) un percorso geografico-museale che vada dall’archeologia industriale delle ex Reggiane (oggi proiettata nell’innovazione del Tecnopolo) alla pioneristica ricerca in campo neuroscientifico (l’enorme complesso dell’ex San Lazzaro in cui già insiste un poco valorizzato Museo della Psichiatria) e magari (ma qui si tocca il delicatissimo equilibrio tra memoria e mitologia) una sistematica rilettura dell’eterna passione rivoluzionaria (talvolta ahinoi in senso stretto) sfociata sì in sacrosante rivendicazioni civili e lavorative ma anche in imperiture adorazioni di modelli politici totalitari (e criminali) in nome dell’autodeterminazione dei popoli. Modelli ciclicamente rispolverati come società cui anelare anche da qualche rampollo delle “giovani generazioni” al caldo dei loro circoli e delle loro pur traballanti democrazie facendo girotondi attorno al busto di Lenin corroborati nelle loro convinzioni da qualche buon bicchiere di vin brulé.
Infine una raccomandazione: in sacrosanti tempi di bande larghe e informatizzazione capillare, è necessario equilibrare il rapporto tra esposizione e digitalizzazione. Che le ricostruzioni tridimensionali e le installazioni web non soppiantino del tutto il prodotto fisico dell’ingegno e della creatività, quadro o scultura che sia, e che i clic del mouse non sostituiscano totalmente la fucina dello scrivere. Il supporto tecnologico stia al suo posto nell’esaltare l’apporto diretto dell’uomo. L’esperienza dell’arte non è propriamente (o solamente) Art Experience.