Ho affrontato la calura, i turisti sul ponte di Rialto, l’odio dei residenti verso lo straniero della terra ferma, la babele linguistica del veneziano, del russo, del francese, dell’americano bofonchiato da turisti alticci.
Ho sfidato i costi proibitivi dei vaporetti, degli alloggi, delle toilette, dell’acqua, del gelato, del cibo in generale, dell’ossigeno che temevo sarebbe stato richiesto ad ogni singolo respiro. Ho combattuto gli sciami di zanzare tigre a mani nude, cercando oblio dalla sofferenza un’ombra dopo l’altra.
E malgrado tutto ciò sono ancora innamorata di Venezia. “Ah, Venezia”, diceva Indiana Jones, e io con lui. Anche quest’anno non ho resistito alla pratica delle vacanze intelligenti e così mi sono dedicata alla visita della Biennale d’arte che, come tutti sanno – o meglio come mi segnala un amico -, regala momenti di umorismo involontario davvero unici. In generale è vero, specialmente quando gli artisti indulgono nei loro stessi cliché (autoironicamente? Non lo so bene… Ok stai scherzando. O no? Sì dai. O no?). L’ironia è uno strumento delicato. Richiede un raro equilibrio di leggerezza e consapevolezza e non sempre il gioco riesce.
Finisco, come al solito, ad appassionarmi di arte figurativa, che mi sembra il linguaggio più datato ma al contempo quello che meno risente del tempo e dell’età. Strano come le performance, le stesse installazioni soffrano di un retrogusto ideologico che oggi mi pare così antico e superato.
Così mi soffermo a suggerirvi il padiglione centrale, nella sede dei giardini, in cui trovare Marwan, pittore di origine siriana, la canadese Hajra Waheed o la coreana Firenze Lai. Forse è vero che in qualche modo si è già detto tutto in fatto di tecniche pittoriche, ma se la capacità di scrittura non passa solo dall’ampiezza di un vocabolario allora anche le potenzialità delle immagini sono infinite.
A passeggio per i padiglioni si è presi dall’ancestrale dilemma che questa esposizione, da Sordi in poi, pone a tutti i visitatori faciloni come me: questa è arte o sono io che non capisco?
La problematica infatti sembra non essersi esaurita con le avanguardie novecentesche e sembra essersi anzi complicata. Non solo artigianato e concettualità, ma anche il sempre più ampio panorama di tecniche, materiali, oggetti, espressioni ampliano il problema interpretativo del profano. Che si trova un po’ confuso dalla artificiale e grottesca sensazione di trovarsi a Gardaland, ma anche dall’umana comprensione – e anche condivisione – del punto di vista dell’artista, che sempre, in fin dei conti, esprime disagio, estraneità, sgomento verso questo mondo multicolore e in rapida, rapidissima evoluzione, la cui comprensione appare oggi, oserei dire tanto quanto all’uomo delle caverne, inafferrabile.
Uscita da questa empasse, mi sono trovata più a mio agio laddove mi pareva si fosse trovato un equilibrio tra estetica, tecnica, modernità, concetto. Mi è piaciuto il padiglione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, un po’ street art un po’ decorativismo ikea ma con una bella mano – che è più di quanto si possa dire di molti alla Biennale – . Mi è piaciuta molto, nel padiglione scandinavo, Mika Taanila e il suo artigianato librario. Non che editi volumi, i libri li prende e li intaglia, lavora nello spessore del testo in modo letterale e dona una sua fascinosa interpretazione fisica alla suggestione del testo scritto.
Anche il padiglione russo non era male. Ipertrofico e con l’ossessione bellica è, almeno, uno specchio fedele dei tempi.
Proseguendo all’arsenale, dove ancora più estreme si fanno le scelte (estremamente banali, estremamente freak, estremamente ingombranti) mi fermerei a suggerire soprattutto le opere di Huguette Caland, disegnatrice e designer di origine libanese che fa buon uso di tecnica, intelligenza ed ironia.
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La Biennale di Venezia
Venezia, Giardini – Arsenale
Fino al 26 novembre 2017
Valutazione: 🙂 🙂 🙂
Consiglio di visione: La Biennale è sempre un’esperienza divertente e solo raramente esteticamente sorprendente. Ma è uno specchio del mondo… molto rumore e pochi attimi importanti.