Ina Casa Rosta Nuova

Ma che bravo Fanfani! Si è discusso della “non architettura” del 1949 che a Reggio portò la firma di Manfredini, Albini e della Helg

La conferenza “Ina Casa Rosta Nuova”, svoltasi nel cuore del noto quartiere, ha cercato di riaprire il dibattito sul diritto all’abitare e la qualità dello spazio pubblico. Paola Di Biagi professoressa di Urbanistica alla Facoltà di Architettura di Trieste, Antonio Canovi storico, Federico Bucci prorettore del Politecnico di Milano e Francesco Dal Co direttore di Casabella, hanno ribadito la portata che ebbe la legge “Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori”, emanata nel febbraio del 1949. Il piano Ina Casa fu promosso dall’allora ministro del lavoro Amintore Fanfani, ed ebbe come obiettivo il rilancio di tutte le professioni legate al settore delle costruzioni.

Nel secondo dopoguerra ebbe dunque inizio una grande fase per la storia dell’edilizia pubblica italiana, che si concluse alla scadenza del piano avvenuta nel 1963. In 14 anni l’intervento consegnò 355.000 alloggi frutto di 20.000 cantieri, e diede lavoro a 40.000 operai l’anno e a un terzo dei 17.000 architetti e ingegneri italiani. Per incrementare l’occupazione e incoraggiare l’artigianalità si scartò la tecnica della prefabbricazione e si affidarono i piani a progettisti attenti alle esigenze della vita moderna e alla specificità dei luoghi di intervento. Il piano Ina Casa portò ricostruzione fisica, sociale ed economica. Negli anni successivi fu poi sostituito da iniziative di promozione di edilizia residenziale pubblica di importanza ed efficacia decisamente inferiori, e da una tendenza ad abbandonare la pianificazione urbanistica, favorendo progressivamente lo sviluppo sregolato e l’interesse privato.

I quartieri Ina Casa conservano una identità forte, e Rosta Nuova ne è esempio, soprattutto se confrontata con la crescita disordinata che subirono in seguito le nostre città, attivando un processo di privatizzazione dello spazio pubblico. A partire dagli anni ’60 lo sviluppo urbano vide una quasi completa assenza di piani urbanistici, e di conseguenza la mancanza di integrazione tra abitazioni, servizi e spazio pubblico.

La rappresentanza politica ha sottolineato, in questa occasione, la necessità di una responsabilità civica, di iniziative autonome, in una fase storica nella quale ogni inadempienza è giustificata da difficoltà economiche (che certamente non mancavano nell’Italia del secondo dopoguerra). Francesco Dal Co ha invece ribadito la centralità della pianificazione imputando la colpa ad uno Stato che ha nel tempo “deposto le armi, rinunciando al suo ruolo di guida e imprenditore”. Perché la grande lezione dei piani Ina Casa è quella dello spazio come bene comune, uno spazio che non esiste in assenza di pianificazione: attenta, democratica, condivisa. La geografia delle nostre città ci racconta che ha prevalso l’interesse privato su quello condiviso, palesa gli intrecci tra le amministrazioni e gli affari, si abbellisce di progetti autoreferenziali giustificati da una funzione “pubblica”.

L’iniziativa Ina Casa, non senza polemiche, riuscì a dare nuova energia a un Paese che voleva rialzarsi, a una società che aveva bisogno di prendere nuova forma senza abbandonare le solide radici. Produsse lavoro, ricostruì fisicamente e moralmente le città italiane e incoraggiò il dibattito sulla forma dello spazio pubblico e di quello privato.

La “non architettura” dei piani promossi da Ina Casa come quello che gli architetti Franco Albini, Enea Manfredini e Franca Helg progettarono per Reggio Emilia,  rispose al desiderio di dignità di molte famiglie disagiate senza alcuna imposizione violenta, ma con una estrema attenzione alle loro difficoltà.

È necessario riportare all’attenzione il dibattito sulle politiche abitative, che torna ad essere centrale date le contingenze storiche che il nostro Paese sta attraversando. La grande percentuale di case di proprietà in Italia ha considerato finora l’emergenza abitativa come affare “di pochi”, che riguarda oggi però sempre più persone. Sono necessarie nuove strategie di utilizzo del patrimonio dismesso e di quello invenduto, nuovi modelli abitativi per la ricostruzione post-sisma, interventi in grado di migliorare le condizioni di vita nelle periferie. Le istituzioni pubbliche hanno il dovere di considerare le colpe dello Stato di fronte al risultato degli interessi e delle concessioni, imputabili della distruzione del territorio, e la necessità di rispondere efficacemente al diritto alla casa utile a garantire coesione sociale.

Ai rappresentanti politici che chiamano passivamente i cittadini alla responsabilità civica ignorando il fondamentale ruolo di chi ha progettato e di chi ha costruito spazi ancora oggi al servizio della vita, chiedo di impegnarsi per riportare lo Stato e le amministrazioni ad un ruolo attivo di “guida” nelle più importanti questioni sociali.

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