Ah sì, Sanremo

Abbiamo ragionato ad ugole ferme, passata l’ondata ciarliera e coinvolgente dell’unico vero simbolo che tiene unita la nazione, pur nella divergenza di vedute, ovvero il festival canoro (leggasi pubblicitario) della Riviera dei Fiori. Il solito consolidato successone di share nella settimana più attesa d’Italia (paragonabile solo al Natale, forse). Il tutto grazie, o a causa, di un mix di elementi studiati nel laboratorio alchemico del mago Amadeus

E anche stavolta il paziente ha passato la nottata, anzi, le cinque nottate, che pian pianino l’impegno nel corso degli anni è andato crescendo e da un concorsino canoro in tre serate è diventato una cosa talmente impegnativa che se uno lo vuole seguire per davvero è meglio che si prenda le ferie, o abbia già di suo un bruttissimo rapporto col sonno: il Festival di Sanremo, coi suoi fiori, i suoi pettegolezzi, i suoi fiumi di soldi, è più vivo che mai, e forse visto che è qui per restare dai e dai forse si è magnato il rock’n’roll. In sintesi: questo paziente in realtà sta benissimo, meglio che mai, e ha probabilmente anche preso la spinta giusta non solo per sopravvivere a questa foia di modernità che di tanto in tanto persino a noi, Paese che non legge Wired, ci attanaglia, ma addirittura di questa modernità per diventarne parte costitutiva e importantissima.

Se così non fosse, non staremmo tutti lì a farci domande oscenamente fuori luogo tipo se uno ha vinto perché se lo meritava o perché i discografici, vil razza dannata, hanno decretato ab ovo il suo trionfo e prenderemmo la kermesse per quello che in realtà è: un immenso stacco pubblicitario, con altra pubblicità dentro, e la parvenza di una partecipazione collettiva per attrarre più share.

In ogni caso, se un format, pur con le debite e necessarie variazioni sorpavvive per oltre settant’anni, forse è il caso di passare ad una analisi seria del prodotto anziché stare lì a frignare le solite querelle al brodino di dado. Quando poi il format in questione fa registrare gli indici di ascolto dell’edizione appena passata, è ora di mettere veramente i gomiti sul tavolo e darci dentro con lo studio. A questo punto, invece di uno slogan diventa una domanda necessaria: perché Sanremo è Sanremo? E non, poniamo, Castrocaro o Grottaferrata?

Non è stato, come ha sbandierato la direzione RAI, un record assoluto; lo share è stato nel corso degli anni anche molto più alto. Nel 1987, primo anno di rilevazione degli indici di ascolto, ha superato col suo 68, 71% di quasi undici punti percentuali quelli di questa tornata 2022. Vero è che, nel tempo, sono occorsi alcuni cambiamenti sociali e mettere la gente davanti alla televisione è diventato via via sempre più difficile, come ben sanno quelli che di televisione ci campano; è però anche vero che il popolo degli spettatori grosso modo è sempre quello, nel senso che se mi ostenti le statistiche della percentuale e non quelle della dimensione del pubblico rischi di fare sempre bella figura.

Per dire, se un tempo c’erano 20 milioni di spettatori e ora ce ne sono 5, le statistiche le puoi fare lo stesso e fare comunque un figurone dicendo che ti sei accaparrato oltre la metà degli spettatori. In realtà, il macchinino Auditel rileva quello che guarda un campione di circa 16.000 famiglie, per una stima di 41.000 persone in totale; su queste viene poi estrapolata la proiezione che si spera, o si dichiara, il più possibilmente adesa alla realtà del collettivo spettatoriale. In effetti, per quello che ne sappiamo potrebbero benissimo accendere la televisione per prendere i buoni acquisti con cui vengono ricompensati annualmente, e poi andare in camera da letto a fornicare; qui si spiegherebbe anche la sconcertante capacità popolare di seguire una gara canora che, diciamolo, spesso è propedeutica alla mungitura delle ginocchia fino a orari in cui una volta se tornavi a casa ti menavano, anche se non eri un giovinastro ma, a maggior ragione, il capofamiglia. Grande, grandissimo successo tra i giovani, pare; altre rilevazioni interessanti vengono anche dai televoti ottenuti per mezzo dei cellulari, e una attenta esplorazione dei social conferma che, sì, l’attenzione è reale, e l’interesse, pure.

Quale è stato, allora, il segreto del successo di questa edizione del Festival? Intanto, per onestà dobbiamo dire che fuori fa freddo, e c’è il Covid; poi, che gira e rigira stiamo sempre attorno al 50% dello share misurato sulla media delle serate, quindi, niente colpi di testa, né miracoli. C’è però da dire che, dopo una curva platealmente in discesa dagli albori ad oggi, negli ultimi anni ci si è stabilizzati su di una specie di precario plateau, nel quale ci sono comunque alti e bassi (ad esempio, la scorsa edizione non è andata granché bene, persino peggio di quella del 2014 condotta da Fazio / Littizzetto). I giovani, i rapper, i trapper, c’erano pure l’anno scorso, e aveva fatto decisamente meglio Baglioni, anche senza il vantaggio non indifferente di essere costretti in casa dalla pandemia, e a poco alla fin fine era servito tutto il can can dei tanti supergiovani fenomenabili dissacranti e dissacrati. No; quest’anno – una delle edizioni in assoluto più povere, che ha visto al posto della consueta congerie di ospiti internazionali Fiorello, Zalone e un fotografo vestito da donna, in economia proprio eh, altro che austerity – probabilmente ha giocato a favore un furbesco mix di fattori che, finalmente, sono stati dosati in maniera decorosamente professionale.

Prima di tutto, le scenette parrocchiali della conduzione di Amadeus. Non è certo l’unico ad avere adottato questo tipo di teatrino; alla fine, queste telefonatissime pantomime che quando va bene sono lo spettro decotto dello slapstick e quando va male sembra uno che non sa raccontare le barzellette e ci siete chiusi insieme in ascensore, sono ormai parte integrante – la dorsale, financo – dello spettacolo da un buon ventennio. Poco importa se fanno storcere il naso; tanto, al pubblico italiano mica gli puoi dare qualcosa in più delle pacche sul culo e della battuta grossolana, che già fanno fatica a capire Zalone, insomma, il di più è sprecato. C’è da dire che Amadeus & Co. recitano con grande entusiasmo, con energia da intrattenitori di villaggi vacanze, e questo alla fine paga, come un infinito trenino di Capodanno.

Poi, una scelta un po’ più oculata dei brani; lo scorso anno era tutto in ordine di supergiovanilità con centocinquanta sillabe al secondo e tre quarti dei brani apparentemente scritti da Mamhood per Mahmood cantati con l’inflessione di Mahmood (che poi è sardo), e questo tra obsolescenza del pubblico, cicagna dopo la prima mezz’ora e un sonoro spesso non esattamente all’altezza avevano fatto sì che l’effetto generale fosse come quello del macellaio col Mascetti in “Amici miei”: “Non ho capito un cazzo”. Tipo, come se cantassero sempre la Oxa, la Vanoni e la Pravo, ma più veloce. Quest’anno, furbescamente, la formula probabilmente perfetta: giusta percentuale di giovani e di dinosauri; i supergiovani imbolsiti da canzoni spesso dinosauresche, i dinosauri svecchiati da robe supergiovani, con le eccezioni costituite da Zanicchi e Ranieri che quelli proprio non gli vai in testa, eh, e dalla Rappresentante di Lista che ha appunto rappresentato una lista tutta sua uscendo dall’underground fertile italico che c’è fuori da Milano e Roma e sbocciando un vero ballabile dal basso accattivante, così dal nulla, correndo verso un successo meritato anche grazie al fatto di aver pronunciato l’unica battuta davvero geniale di tutta la serata: battuta costituita dalla pronuncia della parola “culo”, che fa sempre ridere, di più è tutto sprecato nell’italico contesto.

Poi, un dosaggio leggermente meno indigesto delle rovine del politicamente corretto, rappresentato qui e là da alcuni endorsement al mondo del femminile, del quale Emma, pubblicizzando pannolini, si dimostra campionessa inarrivabile (salvare il mondo un assorbente alla volta) ma senza strafare, idem per l’ecologia, idem per i poveri eccetera. Assente anche il necessario disabile della competizione, che qui, in luogo di tetraplegici, ciechi, sordomuti eccetera variamente impegnati nel corso degli anni è stavolta stato sostituito con Grignani, decisamente più attivo della media anche se maggiormente compatibile sotto il profilo artistico. Al proposito dobbiamo anche far rilevare che lo stesso soggetto ha anche portato sul palco quel po’ di polemichette da niente senza le quali lo share da Baudo in poi sarebbe ben meno seguito; chi ha visto Grignani imbarazzante è certamente senza cuore, ma può consolarsi pensando di essere l’Abbé Pierre al cospetto del cinismo di Irama e dei produttori che lo hanno voluto lì per fare la comparsata.

Anche se la polemica dominante è stata addirittura inventata di sana pianta, coi giornalisti che si sono messi obtorto collo a riportare coltellate che non ci sono mai state, come per la situa Zanicchi – Drusilla. Gori, ben più di un sommesso Achille Lauro che ormai non sa più cosa inventarsi per mascherare il fatto che non canta; Gori, dicevamo, la velina che tutti vorrebbero per sempre sul palco, e a lui però rode la barba sotto al cerone. A noi invece rode che pur geniale questo soggetto abbia detto non solo impunito, ma addirittura osannato, cosette banalotte che se le avesse dette una donna l’avrebbero massacrata, e se le avesse dette un uomo, il rogo proprio. Evidentemente, invece, un uomo vestito da donna rappresenta il giusto equilibrio; per noi questa cosa resterà sempre un mistero, ma siamo contenti per il suo successo che, specie nel contesto generale sboccacciato e fregnone, è stato meritatissimo.

Per quanto riguarda quello che in teoria dovrebbe interessare tutti, ossia la gara, cosa c’è rimasto da dire se non che sapere in anticipo chi arriverà in quale posizione può risultare alla lunga fastidioso? E però, evidentemente, dopo trent’anni ancora non ha stufato. Con la novità che finalmente abbiamo capito che se li mandiamo anche all’Eurofestival non è che finisca l’universo, anzi, si fanno anche più soldi; e questo, dal 1956, era anche ora di capirlo. Resta invece sullo sfondo, in questo momento storico che scimmiotta il politically correct statunitense (che già è una parodia di se stesso) quello che è uno dei maggiori punti attrattivi del Festival, da sempre: la giuria casalinga e degli amici, che giudicano, tagliano, accoppano, cuciono, ghigliottinano, perculano e bruciano abiti, canzoni, cantanti, presentatori, direttori d’orchestra, scenografia, vite vere e immaginarie di tutti, salvo poi il giorno dopo dire agli altri di vergognarsi per tanta cattiveria sui social.

Ma senza questo, il Festival non lo vedrebbe più nessuno oggi, mentre al contrario i giovani e meno giovani ormai stanno sul divano col televisore davanti e il cellulare in mano a condividere tanta sagacia ridendoci su, come si dovrebbe fare per ogni spettacolo di guitti che si rispetti. E in tutto ciò, un mistero nel mistero, rappresentato dalla misteriosa assenza dei martellanti sponsors principali come nelle precedenti edizioni (quante volte abbiamo augurato di incespicare al ballerino della TIM?) e all’assenza, anche questa inspiegabile, di “Lo chiamavano Trinità” sull reti Mediaset a tentare l’ammazzamento. Come se si fossero finalmente capiti e messi d’accordo per non lasciare spazio ad altre pubblicità, insomma. Come se a Sanremo ormai non ci andassero solo più a gareggiare se non grandissime etichette milanesi e romane, tipo, o quasi, o suppergiù.

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