Il crollo della politica è anche il crollo dello Stato

Bagnasco, cioè, ha perorato una vera e propria difesa della politica, in primo luogo, a fronte di quelli che ha definito “coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa.” Fin qui si potrebbe obbiettare che ha gridato la nudità del re, poiché tale verità che è sotto gli occhi di tutti con le conseguenze che gravano su tutti, soprattutto su quelli che ne sono gravati da sempre. Bagnasco, però, ha fatto un’altra osservazione, diciamo così di natura esplicativa, sempre in riferimento al ruolo della politica intesa nel suo senso proprio dicendo che, proprio in momenti come questi, essa “invece dovrebbe essere decisiva, se la speculazione non avesse deciso di tagliarla fuori e renderla irrilevante e quasi inutile.”
Trattandosi di un cardinale di Santa Madre Romana Chiesa verrebbe da dire in latino: “Qui habet aures audiendi audiat”. Tradotto in linguaggio corrente significa che, per ogni ordine statuale, i problemi che esso si trova ad affrontare necessitano di risposte che dalla politica non possono prescindere. Infatti, uno Stato che ne prescinde si pone, ipso facto, in una dimensione che lo stravolge, diversa da quella per la quale è nato, si è giustificato; una questione che sta a fondamento del pensiero politico occidentale almeno dal terzo secolo avanti Cristo; insomma, da Aristotele in giù.
Non solo, ma se lo Stato è una democrazia questa non può prescindere da una funzione costituzionalmente attiva del Parlamento che organizza la rappresentanza sovrana del popolo sovrano. Ha ragione Bagnasco quando denuncia la debolezza della politica e le conseguenze che ne derivano, ma ha ancor più ragione a denunciare come la risposta pubblica, quella cioè che spetta al momento istituzionale, implica la politica poiché il crollo di questa lo è anche dello Stato. Trattandosi, poi, di uno Stato democratico, diciamo noi, anche della democrazia. Da qui potremmo inanellare una serie di conseguenze relative al prevalere della tecnicalità nel governo del Paese, al fatto che il Parlamento è solo il luogo di ricevuta dei decreti legge del governo, che le componenti sociali, ossia i sindacati – i quali, non dimentichiamolo, sono delle istituzioni della democrazia – non devono, di fatto, intromettersi in ciò che fa il governo per cui della concertazione non c’è bisogno e, infine, non essendo più la politica il perno della forma democratica dello Stato, si tenda soprattutto a salvaguardare interessi castali, che non sono certo quelli dei tassisti, bensì quelli del potere bancario e finanziario.
Potremmo sbagliarci, ma al di là di un ragionamento prospettico generale, quasi a valenza politico-dottrinaria, ciò che si ricava nel non scritto dalla relazione del cardinale, è una critica mirata al governo e alla logica che lo ha ispirato senza che ciò, peraltro, significhi un riagganciarsi in qualche modo all’esperienza del precedente presidente del consiglio, su questi si era già espresso esplicitamente in altre occasioni. Ci pare, insomma, che il massimo rappresentante dell’episcopato nazionale sviluppi ulteriormente quanto elaborato nel forum di Todi e rappresenti, in forme e modi consoni al ruolo, una spinta ulteriore ai neodemocristiani a porre al centro della loro ripresa di iniziativa non un fattore di mero reducismo, bensì di stringente attualità quale quello rappresentato dalla supremazia della politica che lo Stato, nel suo insieme, esprime e tutela in conformità alla lettera e allo spirito della Costituzione.


PAOLO  BAGNOLI
 

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