Seguendo la scia della drammaturgia inglese degli “angry young man”, Martin McDonagh scrive a 27 anni (nel 1997) l’opera Occidente solitario, ultima parte di una trilogia che ebbe subito un grande successo. L’autore, d’origine irlandese, riproduce il difficile rapporto di due fratelli, consumati dal rancore e dalla violenza e costretti a vivere sotto lo stesso tetto. La realtà emarginata di un piccolo paesino di campagna a cui da vita McDonagh non ha nulla di rassicurante. Una comunità dimenticata da Dio e dagli uomini, dove tutti i suoi abitanti sembrano destinati all’infelicità. Per la regia di Juan Diego Puerta Lopez, i protagonisti sono affidati a due volti del cinema italiano, tra i più noti e preparati: Claudio Santamaria e Filippo Nigro. Lo spettacolo, in scena al Teatro Puccini di Firenze, ha riscosso grande successo per l’intensità con cui questi due attori hanno interpretato i loro patologici personaggi.
Mentre tra le quattro mura di casa trascorrono le ore a insultarsi, provocarsi, farsi dispetti e picchiarsi, all’esterno, nel paesino dove vivono, sembra essere anche peggio: omicidi, incidenti e suicidi sono all’ordine del giorno. Realtà insostenibile per il prete della piccola parrocchia (Massimo De Santis), il quale vorrebbe portare pace e amore alla comunità, ma è troppo debole e insicuro per farlo. Molto più facile per lui piagnucolare, ubriacarsi e deprimersi, tanto da conquistare l’affetto e la pietà di Ragazzina (Azzurra Antonacci), giovane fanciulla che già ha capito come sopravvivere in una società tanto oscura e brutale. Lei si guadagna da vivere vendendo whisky abusivo a domicilio, la sua anima è piena di buoni sentimenti. Soprattutto è capace di sopportare un mondo in cui regna la solitudine, l’aggressività e l’indifferenza. Mondo che, invece, il prete fugge nel modo peggiore possibile.
È la scelta estrema del parroco a spaventare i due fratelli, a spingerli a cercare di andare d’accordo. Lo fanno in suo onore, ma anche per evitare una qualche maledizione divina. Purtroppo questo tentativo finisce, ancora una volta, in un gioco al massacro. Quanto sono disposti a perdonare dopo che per anni hanno provato l’uno a distruggere i sogni dell’altro? Non sono abituati all’amore, non sanno dimostrare i loro sentimenti, sanno solo sentirsi forti nel mostrare la loro cattiveria. In realtà sono ancora due bambini e hanno un disperato bisogno di attenzione. Coleman, spietato e cinico (Santamaria), non ha problemi nel dipendere economicamente da Valene, maniacale e possessivo (Filippo Nigro), e in realtà quest’ultimo non potrebbe fare a meno dell’altro, gode nell’essere “saccheggiato” dal fratello.
Lo spettacolo si consuma tutto nell’abitazione dei due, luogo-prigione di una condizione immobile e immutabile, ricreata dallo scenografo Bruno Buonincontri. Il linguaggio, tipico della drammaturgia moderna inglese e americana, è quello quotidiano, crudo, rozzo, reso ancora più vivo dai due interpreti principali, perfettamente calati nei panni di personaggi arrabbiati, esagitati e fuori di testa, rappresentanti di generazioni abbandonate a loro stesse, senza civiltà e senza valori a cui aggrapparsi.