Evento sulla “Pace”: quando la “bellezza” diventa “provocazione”, comincia la storia

Firenze – Intensa, vibrante, provocatoria: si potrebbe sintetizzare così lo spirito dell’iniziativa che ieri ha visto insieme, nella sede della Fondazione Robert F. Kennedy Center for Justice and Human Rights Europe , etica, estetica, letteratura, arte, musica, in una parola “cultura”, a riflettere su “La bellezza della pace. Parola suono immagine” . Ed è stato uno degli ideatori e organizzatori dell’evento, il filosofo e  ordinario della cattedra di Storia della filosofia contemporanea presso l’ateneo fiorentino Alessandro Pagnini, a dare la “traccia” di un percorso che ha portato a riflessioni interessanti e anche dissacranti sui termini, anzi, sul termine “pace”.

Intanto, la ragionevolezza di parlare di “pace” in un periodo in cui sembra davvero che si tratti di un flebile sogno in mano a imperscrutabili dèi è il primo dei punti su cui abbiamo chiesto al professor Pagnini di fare chiarezza. “Abbiamo sentito la profonda esigenza – spiega Pagnini – di mettere in campo delle riflessioni sulla pace in quanto sembra che, almeno a livello di pensiero occidentale, sia ormai convinzione diffusa quella di dover reimmettere nuovi significati in un concetto già molto esteso. Nel senso che la questione della pace comprende sempre più svariati campi. Per fare un esempio che attiene alla mia esperienza di filosofo che si occupa di biomedicina, la malattia, interpretabile come lotta e polemos nel momento in cui interviene a “turbare” un evento “pacifico”, vale a dire armonico, come la “salute”, viene sempre più assunto all’interno di un concetto generale, dinamico che lo accoglie come momento necessario per “fare pace”. Una tendenza che si desume anche dalla nuova inclinazione medica a smussare i termini “polemici” vale a dire guerrieri con cui finora si è trattato “il nemico”, le cause della malattia, con espressioni tipo “debelliamo il virus”. Termini di scontro che tendono a essere rivisti sotto l’aspetto di assunzione del momento critico, dell’episodio di rottura come momento imprescindibile proprio della … pace”. Con un altro addentellato fondamentale: riflettere sulle nostre abitudini inveterate di rapportarci anche alla malattia, vuol dire in buona sostanza assumere un paradigma biomedico diverso. Nel senso che è necessario smettere di pensare alla malattia come a un alieno che si è introdotto nel nostro ordinato cosmo, qualcosa che “entra dentro”; no, dice Pagnini,  il nemico “è dentro”. Insomma, è necessario imparare a convivere con la conflittualità in quanto parte dell’essere umano, ancora, in quanto è la natura stessa a essere “ambigua”; né bene né male, né guerra, né pace, ma bene-male, pace-guerra.

Una modalità provocatoria di guardare alla questione? Può darsi, del resto, l’intero avvenimento, ricorda Pagnini, è nato sotto un segno di “controtendenza”: “Perchè, ci siamo chiesti, la questione che va sotto il nome di “pace” deve sempre essere indagata da filosofi o rimanere in carico alla politica?”. Un evento che ha tenuto fede al suo compito impostando sul tema “pace” non solo la prima parte costituita dalle riflessioni di Sergio Givone, Telmo Pievani e Stefano Bartezzaghi, ma anche un evento artistico di altissimo livello come l’inaugurazione dell’installazione di Marco Nereo Rotelli con letture di Emilio Zucchi tratte da “la midolla del male”, oltre a meravigliosi stacchi musicali, “Mantras” eseguiti da Mirio Cosottini, perfetto contraltare spirituale al dibattito. Così, i punti di vista della riflessione sono stati impostati sul “mirino” estetico, etico, artistico, musicale, letterario. E ciò che ne è uscito sono una serie di riflessioni davvero “provocatorie”.

Cominciamo con la riflessione che è stata offerta dal filosofo italiano e professore ordinario di Estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze Sergio Givone. Complessa ed esaustiva, si può azzardarne la sintesi in due punti focali. Da un lato, la dichiarazione e dimostrazione che la “pace” è, esiste “prima”, è “dato”; in altre parole, si tratta di una pace foriera di un primato “ontologico”, che trova il suo momento di rottura nella “crisi” vale a dire la “guerra”. Ma essendo status ontologico “dato”, la “guerra” o crisi o momento di rottura che esso sia, non può ostacolare il ritorno “naturale” allo stato originario della “pace”. Del resto, è questo cui tende l’animo umano, o meglio, liberandosi delle sue illusioni, l’animo umano torna a uno stato congeniale “di natura” vale a dire la “pace”.

Una volta acquisito, lo status “pacifico” dell’anima può permanere a dispetto delle continue sollecitazioni al suo incrinarsi. Qualcosa, chiarisce Givone, che ci riporta alla “libertà tranquilla” di Cicerone, la pienezza della “pace” (armonia) interna che permette all’uomo di agire esattamente per il meglio data la situazione. Un punto di vista, a ben guardare, che potrebbe, dati i presupposti di Givone, portare a considerare la “guerra” da un lato un “accidente” che, per quanto grave e prolungato, tende ad essere eliminato dal “sistema” stesso, dall’altro, a vederne la natura (della guerra) di stimolo per la ricerca di “ricostruzione” della pace. Dunque, l’analisi mette uno stop preciso anche a certo pacifismo “ingenuo”: pace-guerra binomio inscindibile, se c’è pace c’è guerra e viceversa, in quanto i due tempi non sono prescindibili, pena la “morte” di entrambi.

Se la provocazione del filosofo estetico Sergio Givone è forte, ancora più “spiazzante” appare ciò che ci svela lo studioso Telmo Pievani, che dal 2012 è titolare della prima cattedra italiana di Filosofia delle scienze biologiche. Ecco, il professor Pievani parte dai nostri cugini più stretti, i primati, per indagare, utilizzando i loro comportamenti, la correttezza o meno della domanda: l’uomo è “scimmia assassina” o “scimmia cooperante”? Quale di questi due aspetti prevalgono? In parole più chiare: l’uomo è “naturalmente” killer o pacifista, carnivoro cacciatore o sognatore vegetariano? Ebbene, nessuno dei due, dice Pievani. Indagando appunto la natura, emerge un dato di fatto importante e, aggiungiamo noi, spiazzante: è la prima volta che sulla superficie terrestre accade la “storia” di una “razza” come quella umana, che compie insieme due mutamenti epocali: da un lato, “cambia” l’ambiente col suo lavoro (rendendo l’ambiente artificiale? ….) dall’altro e inevitabilmente cambia se stessa attraverso il cambiamento dell’ambiente. Da che parte si nasconde “il comportamento naturale”, dunque? E se dove questo “giochino” dell’umanità andrà a parare è questione aperta, qual è il legame fra questo e il concetto o definizione che dir si voglia di pace (e dunque, come insegna Givone) guerra?

Eccolo: in natura, dice Pievani, non c’è la possibilità di rispondere alla domanda se l’uomo sia killer o solidale rispetto agli altri. Abbiamo tante prove, dice Pievani, sia dell’un comportamento che dell’altro, prove “provate” che derivano dall’osservazione di coloro che sono i nostri “cugini” più prossimi vale a dire i primati. Importante da sottolineare che i primati sono un ottimo esempio in quanto dovrebbero essere liberi dai condizionamenti potenti delle “culture”. Ma anche ciò è vero fino a un certo punto. In sintesi dunque, nella scienza si possono rintracciare comportamenti esattamente bivalenti: stessi gruppi composti dagli stessi individui si comportano sia da “scimmie assassine” (arrivando persino all’infanticidio contro i gruppi avversari) sia da scimmie solidali, piene di “compartecipazione” gli uni con gli altri. Dunque?

Intanto, un dato: gli studiosi hanno afferrato l’importanza della “cultura” come elemento imprescindibile dell’evoluzione, insieme ai modelli comportamentali, alla psicologia di gruppo e individuale. Fino a tornare a un punto fermo dal sapore ancestrale e escatologico: infatti, è la decisione dell’individuo alla fine ciò che sembra davvero contare nella scelta di un comportamento bellicoso o pacifico. Si sente un profumo ben noto, quello della famosa mela di Adamo ed Eva …

Infine, chiudiamo con quella che è forse la provocazione culturale e sociale più “pesante”, vale a dire la riflessione di Stefano Bartezzaghi, docente di semiotica presso la Iulm, e “creatore” senza aggettivi, verrebbe da dire, visto lo sterminato numero di opere e imprese cui ha dato e dà vita. Ed è proprio da Bartezzaghi che esce una considerazione che potrebbe essere presa a inizio di una riflessione sulla creatività del ….male.

 Messa così, potrebbe suonare addirittura banale. E’ almeno da Baudelaire che l’Occidente si trova di fronte in modo sfacciato alla scelta del male come operazione creativa. Ma al di là di romanticismi e decadentismi di vario segno (alcuni dell’epoca nostra, a ben vedere), la considerazione di Bartezzaghi parte da una constatazione, semplice. Eccola: le storie cominciano tutte (e sottolineiamo tutte) da un episodio di rottura. La “pace” non fa “storia”. Cosa significa? Questo: nessun racconto è possibile sulla “pace”. L’ordinato svolgersi dei fatti non nutre la storia: non si può raccontare. Destino che la “pace” condivide con altri concetti come ad esempio la “libertà”. Del resto, è tipico del pensiero occidentale definire per sottrazione: so che cos’è la pace opponendola alla guerra (ma è davvero questo il suo contrario?) so cos’è la libertà opponendolo alla schiavitù: ciò che non ho mi serve per definire ciò che ho. Un rapporto polemico? E se sì, è anche, possiamo dirlo, un rapporto “guerresco”, fra i concetti.

Del resto, se il punto di partenza della storia da raccontare, da costruire ed evolvere è la “guerra” intesa come “rottura” dell’armonia che definiamo “pace”, il prosieguo della storia sono gli sforzi che i soggetti compiono per ritornare alla pace. Sì, ma senza la guerra, allora, non possiamo parlare della pace. Ecco il paradosso: della pace possiamo parlare solo se c’è la guerra. Dunque, riportare la pace significa rimettere in ordine il caos prodotto dall’accadimento dirompente. Ma se questo è chiaro, è vero anche che la “pace” (l’ordine?) non può sussistere in eterno perché matura in se’ i “semi” della “discordia”. Da notare, dice Bartezzaghi, che la Discordia è una dea, quella che getta la famosa mela d’oro sul tavolo a cui banchettano gli dei, scatenando la guerra di Troia. E facendo cominciare la storia. Del resto, annotiamo fra le righe, anche l’inizio della “Storia” con la Esse maiuscola nasce, secondo i libri sacri, da una ribellione, da una rottura dell’ordine divino: è la ribellione di Satana a dare il tempo del primo tocco dell’orologio della Storia, anzi a dare il via al tempo stesso.

 E dunque, quale speranza di pace per l’uomo? La soluzione proposta da Bartezzaghi è nello stesso tempo “minima” e “massima”: possiamo “accontentarci” della “tregua”. Un momento in cui si sospende la “guerra” di comune accordo (simbolico l’episodio dell’Orlando furioso, la fuga di Angelica) e si procede, come Orlando e Ferraù, insieme solidali alla ricerca di Angelica in fuga. Fino a quando le nostre strade si dividono di nuovo, e di nuovo torna la necessità della … guerra. Ovvero, della Storia.

 

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