Firenze – Quando i soldi sono pochi bisogna fare delle scelte. In poche parole: non si riducono in modo lineare le risorse per la ricerca i modo che tutti abbiano la loro fettina, ma si decide su quali settori orientarle per fare massa critica: “Guardate il Giappone, nel lungo periodo di deflazione e crescita zero ha scelto su cosa investire con il massimo dello sforzo, per cui ora è molto competitivo in alcuni settori e più indietro in altri. L’Italia rischia di rimanere indietro in tutti i settori strategici per il futuro”, raccomanda Massimo Inguscio, presidente dell’ Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRIM). Ci vuole dunque un nuovo sistema nazionale di governance per evitare lo sparpagliamento dei finanziamenti.
Parlando da uno dei palchi della Festa dell’Unità di Firenze, tre fra i massimi rappresentanti dei soggetti pubblici e privati dei centri di ricerca toscani sono stati unanimi nel chiedere con urgenza un cambiamento radicale nella politica della ricerca del governo nazionale. Il quadro della situazione lo ha fatto lucidamente Fabrizio Landi, presidente della Fondazione Toscana Life Sciences. L’Istat indica in 23 miliardi la spesa per la ricerca in Italia, ma secondo Landi sovrastima la parte pubblica, perché parte delle risorse in realtà vanno all’assistenza sanitaria e alle docenze e sottostima quella privata soprattutto delle Pmi perché le aziende non comunicano il loro impegno per esempio nell’innovazione di processo. La reale dimensione dunque si aggira intorno a 28 miliardi di cui 8 pubblici e 20 privati.
Questo denaro che rappresenta solo 1,26% del Pil nazionale, tuttavia si incanala in tanti rivoli suddivisi fra tanti ministeri, con finalità ed efficacia diverse e invece ci dovrebbe essere una “politica vera e un ente unico che se ne occupi”. Bisognerebbe per esempio seguire le indicazioni del programma Horizon 2020 dell’Unione europea che punta a potenziare la ricerca sotto la guida dello sviluppo industriale, finanziando quindi l’industria. Landi e Inguscio suggeriscono al governo un cambiamento sostanziale del sostegno alla ricerca delle imprese: contributi diretti provocano la conseguenza di subordinare i progetti al fatto che ci sono finanziamenti favorendo inevitabilmente proposte e azioni buone solo per avere il via libera della burocrazia: “La soluzione è il credito di imposta se l’azienda investe in ricerca e leggi come quella sulle start up che funzionano visto che ora ne nascono 30 a settimana”
Per Alberto Tesi, rettore dell’Università di Firenze, la premessa per tenere il passo nella ricerca occorre in ogni caso mantenere l’eccellenza nell’alta formazione del capitale umano che serve alla ricerca. Ed è questo il motivo per il quale occorre un migliore coordinamento fra università e il mondo del lavoro. L’ateneo fiorentino riceveva dal ministero 90 milioni l’anno per la ricerca che si sono ridotti a 15/20, ma a quelli a disposizione oggi sono 135 grazie anche ai progetti europei. Gli spin off attivi sono 25 e 30 i laboratori congiunti con le imprese, “ma manca qualcosa che sia riconoscibile”, sostiene Tesi, un’identificazione specifica dell’impegno dell’università. La Regione potrebbe assumersi un ruolo di coordinamento e indirizzo. Inserendo i giovani in progetti specifici si dovrebbe realizzare “un primo passo per far vedere che si comincia a fare qualcosa”. Già, perché anche la Regione, lamenta Inguscio, finora non ha superato i limiti di una suddivisione a pioggia delle risorse senza scegliere e puntare su quelle iniziative e strutture di ricerca in grado davvero di produrre eccellenza.
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