Attraversando i luoghi dell’odio e della malvagità

In questi giorni ho camminato tanto. Insieme ai ragazzi delle nostre scuole, ad alcuni amministratori locali, agli uomini e alle donne dell’ANED abbiamo visitato i campi di sterminio di Dachau, Ebensee, Gusen, il castello di Hartheim, il campo di Mauthausen. 

In questi giorni ho camminato tanto ma non è il mio fisico ad essere il più fiaccato. Per ristorarlo bastano una doccia, abiti puliti, una zuppa calda e un letto comodo: tutte cose che noi diamo per scontate. Eppure c’è stato un tempo, nella “civilissima” Europa, in cui tutto ciò veniva negato a centinaia di migliaia di uomini innocenti. Era il tempo dei lager, dell’annientamento sistematico della dignità umana, della riduzione dell’uomo a “cosa”, a fantasma di se stesso, costretto a mangiare nello stesso recipiente dove la sera prima aveva espletato i suoi bisogni fisiologici; dove le regole erano costruite non per difendere l’uomo dall’altro uomo, bensì per fare in modo che alcuni uomini potessero umiliare e offendere la dignità di altri uomini. 
Per quanto ci si possa sentir “preparati”, la visita ai luoghi in cui questa tragedia è stata perpetrata nei confronti di milioni di innocenti (ebrei, prigionieri politici, sinti, rom, omosessuali, diversamente abili) è un’emozione forte, un pugno nello stomaco, un misto tra il dolore e l’incapacità di darsi una spiegazione razionale. E’ un’esperienza che almeno una volta nella vita deve essere fatta: le istituzioni, le scuole, le famiglie dovrebbero portare qui i propri figli, far loro vedere fino a che punto può arrivare la malvagità dell’uomo se alimentata dall’indifferenza. 
Quello che veniva perpetrato nei campi di sterminio nazista ai danni degli internati non era solo un male fisico. L’obiettivo di quella “violenza inutile” (come la definì Primo Levi) era innanzitutto quello di spersonalizzare quegli uomini, di far loro toccare il fondo, di togliere ogni residuo di dignità: dall’entrata nel lager fino alla morte nelle camere a gas e ai forni crematori. Tutto aveva una sua macabra razionalità.
Di fronte ai racconti dei superstiti, ai forni crematori, alle baracche, agli strumenti di tortura, la domanda più ricorrente in ognuno di noi è: “perchè è avvenuto tutto questo? Che tipo di uomini erano coloro che si sono resi capaci di tali brutalità ai danni di altri uomini?”.
Quegli uomini erano persone “normali”, cresciute però in un contesto che aveva alimentato enormemente i semi della malvagità e dell’odio che stanno in fondo ad ogni animo umano e che normalmente il sistema delle relazioni sociali tiene a freno.
Ascolto le parole di Paolo Geloni che ci guida in questi luoghi al posto del padre Italo, deportato politico scomparso qualche anno fa. Guardo questi luoghi in cui milioni di persone trovarono la morte fisica e morale. Sento il peso di quella fascia tricolore che qui indosso, in rappresentanza di una intera collettività. Penso al mondo in cui viviamo: una comunità attraversata dalla crisi, piena di paure, conflitti, e perciò nuovamente molto fragile di fronte al rischio che qualcuno ne possa manipolare la coscienza collettiva, insinuando il seme dell’odio e indirizzandolo contro altri uomini.
Sento il dovere di tornare e di raccontare, di condividere con altri un’esperienza che non può essere solo individuale; di fare in modo che altri possano vedere e raccontare a loro volta. Perchè la memoria è il primo antidoto contro il ripetersi di una tragedia simile. Perchè se è accaduto una volta, e a compierlo sono state persone “normali”, può accadere di nuovo: il passo verso la tragedia è breve.
La cultura dell’odio verso il diverso viene seminata ormai da anni un po’ ovunque; la crisi, le privazioni, le enormi diseguaglianze ancora presenti completano il quadro: basta una scintilla per provocare un’ennesima tragedia, nell’indifferenza generale che contraddistingue la nostra società. Dobbiamo tenere sveglie le coscienze, perchè potrebbe accadere domani, in qualsiasi parte del mondo – anche da noi – e potremmo accorgercene troppo tardi.
Cristian Pardossi
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