Il rapporto del tre per cento fra deficit e Pil è il parametro posto alla base della costruzione dell’Unione europea e della moneta unica.
Una costruzione che ha visto principalmente protagonisti governi cattolici e socialisti, impegnati con i loro uomini più rilevanti.
Pensiamo ovviamente a Helmut Kohl, ma anche a Lionel Jospin che ha coabitato con la presidenza Chirac dal 1997 al 2001, anno dell’entrata in vigore dell’euro. Quando ascoltiamo esponenti del partito popolare, o di quello socialista europeo, dire che il patto di stabilità “è stupido”, che il tetto del 3 per cento è “privo di senso”, o semplicemente “anacronistico”, confidiamo che tutte queste posizioni, non siano estemporanee.
Sono tutte state espresse da personalità autorevoli, tali da non poter credere che parlino tanto per fare effetto sull’opinione pubblica. Piuttosto, vorranno riportare una riflessione originale all’interno del loro partito, del loro governo, o persino della commissione europea. Perché qualunque valutazione si desse sul patto di stabilità ed i suoi parametri, questa risulterebbe, a confronto di quelle ascoltate in tutti questi anni, inutile ed ininfluente. Poi possiamo anche cercare di capire illustri professori fulminati sulla via di Damasco, che improvvisamente vogliano uscire dalla moneta unica.
Dopo aver sostenuto la necessità di entrarvi per anni, sono presi da un senso di colpa soffocante e vorrebbero respirare un’aria diversa. Temiamo solo che questa loro resipiscenza sia vana, ovvero non si rendano conto di quanto pesi sul destino dei paesi europei l’aver sottoscritto quei parametri. E’ vero che Rousseau riteneva nessuna carta consacrata inviolabile, e il diritto di cambiarla una garanzia fondamentale per chi pure l’avesse firmata, ma abbiamo come avuto la sensazione che lo spirito di Rousseau si sia un po’ disperso.
L’Italia, poi, si trova in una situazione molto particolare. Buona parte della classe dirigente che sottoscrisse i parametri, non voleva farlo. Coloro che glieli sottoposero, non volevano li sottoscrivessero. Questa, perdonate, non è la condizione ideale per strappare quei trattati, semmai per osservarli fino all’ultimo momento possibile, perché altrimenti l’Italia faceva meglio a non aderirvi e gli altri Paesi a respingerci.
Quando ora il governo italiano dice che bisogna cambiare le regole, non dice niente. Le cambino, le tengano, vedano loro. L’importante è che fin quando non sono cambiate, quelle regole si rispettino. Non è solo questione di credibilità, è questione di salute pubblica, perché su una cosa Renzi ha ragione: il debito che ci troviamo di fronte fa male a noi principalmente. Qualsiasi regola si scelga e qualsiasi parametro, un debito del genere va tagliato. Abbiamo ancora chi vorrebbe alimentarlo.
E’ possibile quindi che l’incontro fra Renzi e Angela Merkel sia andato bene perché Renzi non ha posto in questione la necessità di tagliare il debito, ma rivendicato l’esigenza di decidere noi cosa vada tagliato. E quindi, se si tratta di tagli, da Berlino come da Bruxelles, non giungono controindicazioni. I problemi verrebbero nel caso in cui invece di fare i tagli, il governo, avesse la levata di ingegno di inasprire le tasse. Così fecero Letta e Saccomanni. Infatti, ora a Palazzo Chigi c’è Renzi.
Giovanni Calì