Firenze – Gli sviluppi delle tecnoscienze di questi ultimi decenni, le politiche economiche mondiali e la globalizzazione comunicativa hanno reso sempre più contigue e reciprocamente interferenti le diverse culture e umanità che abitano la terra. In diversi ambiti culturali e istituzionali di ricerca e riflessione, nella stessa opinione pubblica, è sempre più diffusa l’impressione che la gestione sociale e politica della crescente multiculturalità, multietnicità e multiconfessionalità che caratterizza la civiltà contemporanea rappresenti una delle più impegnative sfide e responsabilità che coinvolgerà soprattutto le nuove e future generazioni e, in particolare, i diversi operatori culturali, sociali, sanitari, economici e politici.
Come è possibile affrontare questa sfida e offrire ai cittadini, in relazione ai loro diversi ruoli e responsabilità sociale e civile, dei criteri o strumenti metodologici utili per una prima qualificazione, interpretazione e comprensione delle nuove e complesse problematiche etiche, giuridiche e politiche emergenti nel contesto di una società “plurale”, sempre più caratterizzata e composta, cioè, da una molteplicità di tradizioni e di sensibilità culturali, etniche, morali e confessionali non convergenti, da un’idea di “bene”, in altri termini, non condivisa?
Come ben sanno gli studiosi che da anni si dedicano alla riflessione bioetica (ai difficili e spesso inediti problemi etici sollevati dai rapidi sviluppi delle tecnoscienze e dalle loro ricadute sociali), la complessità delle problematiche in questione non è banale complicazione o sommatoria di meccanismi causali o aleatori noti e conseguenti, ma l’esito di molteplici e intricate interrelazioni e dinamiche sociali, culturali, economiche, storiche e non solo. Piuttosto che adottare delle soluzioni immediate ai problemi etici, ricorrendo, a seconda delle circostanze, alla specificità dei sistemi valoriali della comunità civile o confessionale di appartenenza, conviene ricercare e proporre un nuovo modo e metodo di formulare i conflitti e di interpretare i problemi emergenti.
Dall’insieme delle contraddizioni rilevate, associate e integrate nel loro proprio contesto, possono infatti nascere dei meta-punti di vista utili a reperire, in termini anche molto generali, dei possibili criteri unificanti e apportare delle nuove soluzioni alla gestione politica delle problematiche. La bioetica, infatti, è nata e si è sviluppata proprio in seguito all’insorgere di situazioni conflittuali sempre più complesse e, soprattutto, in conseguenza di un crescente divario tra l’estrema rapidità dei progressi della ricerca e sviluppo tecno-scientifici di questi ultimi decenni e la disponibilità di strumenti di valutazione etica adeguati alla novità e difficoltà dei problemi generati da prospettive e da possibilità applicative, decisamente nuove, spesso inedite e sorprendenti.
La stessa dinamica del “divario” sta anche alla base del concomitante e successivo sviluppo del biodiritto e della biopolitica, che concernono gli aspetti giuridicolegislativi ed economico-politici delle tecno-scienze. Lo sviluppo delle tecnoscienze, infatti, non solleva solo problemi etici, ma anche problemi concettuali, giuridici e politici. Non a caso accanto alla bioetica si sono sviluppati altri ambiti di ricerca e riflessione, – la biofilosofia, il biodiritto e la biopolitica, – che affrontano rispettivamente le incertezze d’ordine concettuale, spesso soggiacenti ai dibattiti bioetici, gli aspetti giuridico-legislativi e gli aspetti economico-politici della ricerca e dello sviluppo biotecnologici e delle loro ricadute sociali.
Dietro alle argomentazioni bioetiche, infatti, e dietro alla stessa portata pratica – o, se vogliamo, funzione normativa – del discorso, spesso si celano complesse questioni filosofiche e varie incertezze d’ordine concettuale. Per citare alcuni esempi, basti solo pensare al concetto di persona, o allo stesso concetto di “essere umano”, spesso invocati e in diverso modo soggiacenti a tutte le argomentazioni sulla natura o “statuto” della cellula uovo appena fecondata (zigote/embrione), delle cellule embrionali nei primissimi stadi di sviluppo (cellule staminali) e del trasferimento nucleare, ossia di quelle nuove e spesso inedite entità che si costituiscono dopo la micro-iniezione nell’ovocita del nucleo di una cellula appartenente ad un’altra specie biologica.
Oppure, al problema dell’inizio della vita e ai complessi e spesso inediti interrogativi implicati: quando inizia la vita umana? Come definire l’umano in un contesto tecno-scientifico dopo l’avvenuto sequenziamento del genoma umano (Progetto Genoma)? In che senso un gene è umano, o il DNA è umano? Ha senso parlare, come spesso si sente, di “tracce di umano” nelle sequenze molecolari del DNA? L’uomo o l’umano sono riducibili o riconducibili al DNA? Oppure, ancora, per citare ulteriori esempi, alle problematiche sollevate dalla gestione biomedica del morire, al concetto di morte e ai criteri di definizione della morte: definire la morte sulla base di certi criteri utilizzabili soltanto in un contesto tecnoscientifico, permette di compiere un certo numero di operazioni (in particolare, il prelevamento d’organi e di tessuti) che una definizione più tradizionale di morte rende difficile o impossibile.
Senza poi menzionare categorie filosofiche tradizionali e fondamentali e conseguenti problemi, come il concetto di natura, la determinazione di ciò che è naturale o artificiale, le frontiere tra le specie biologiche e i regni del vivente e lo stesso concetto di “biodiversità”, così frequentemente invocato nei contenziosi relativi al rispetto dell’ambiente: etica ambientale o eco-etica.
A cavallo tra gli anni 1970’ e 80’, per esempio, sono stati realizzati in laboratorio i primi “animali transgenici” (topi giganti), ossia animali nel cui genoma era stato inserito il gene dell’ormone della crescita del ratto. Già allora ci si poneva l’interrogativo se gli animali transgenici, realizzati in questo modo in laboratorio, dovessero essere considerati naturali o artificiali. Il problema si poneva in relazione al contenzioso circa la concessione del brevetto. É sufficiente un intervento diretto dell’uomo nella costituzione genetica di un organismo vivente perché questi acquisisca lo statuto di vivente artificiale e, in quanto tale, sia suscettibile di tutela brevettuale? Oppure, per citare un esempio più recente, uno dei problemi attualmente più discusso, in seguito al sequenziamento del genoma umano, è la corsa al brevetto e all’appropriazione commerciale delle sequenze del DNA (soprattutto dei “trascritti” e dei “polimorfismi puntiformi” utilizzabili come test diagnostici).
Anche qui, alla base del problema etico, ma anche giuridico e politico, vi è un’incertezza d’ordine concettuale: le sequenze del DNA, ottenute attraverso successive frantumazioni del DNA cromosomico e, soprattutto, ripetutamente clonate e conservate nelle “librerie genomiche”, sono da considerarsi “naturali”, oppure, – in ragione delle ricorrenti amplificazioni, – “artificiali”, e quindi suscettibili di tutela brevettuale? In seguito allo sviluppo della tecnologia transgenica e alla possibilità pratica di intervenire direttamente nel DNA degli organismi viventi, la frontiera tra “naturale” e “artificiale” è divenuta più incerta, e deve quindi essere ripensata.
Un tipico problema di biopolitica, invece, è il problema dell’allocazione e della destinazione di limitate risorse economiche a determinati indirizzi di ricerca, piuttosto che ad altri; come anche più propriamente biopolitico è il problema o l’esigenza di istituire dei comitati di bioetica (oppure dei comitati etici indipendenti), locali, nazionali e internazionali. Rispetto ai problemi concettuali, sempre soggiacenti, e ai problemi giuridici e politici, – che rispondono ad una domanda di regolamentazione e di controllo sociale e che, in qualche modo, possono essere considerati di seconda istanza, – i problemi etici sono più immediati e concreti.
Essi sono infatti l’esito di situazioni conflittuali reali (di reali conflitti di valori e di interessi), che esigono delle decisioni e delle soluzioni pratiche (a volte anche urgenti): dobbiamo consentire o dobbiamo rifiutare certi progetti (protocolli) di ricerca o certe applicazioni biotecnologiche? Per quali ragioni, in base a quali criteri di valutazione, nel rispetto di quali principi e in riferimento a quali valori? L’immediatezza e la concretezza dei problemi etici, d’altronde, è facilmente riscontrabile nelle reazioni dell’opinione pubblica che, di fronte a determinate prospettive di ricerca o di possibili applicazioni biotecnologiche, solleva subito e prima ancora di ogni altra considerazione, quasi d’istinto, – in base al senso comune, o a una moralità latente e presente in ciascuno di noi, – il problema della loro ammissibilità morale, o, relativamente agli alimenti transgenici, il problema della loro affidabilità e sicurezza.
Pensiamo, per esempio, alla prospettiva della clonazione umana riproduttiva o terapeutica; oppure al crescente diffondersi cibi transgenici, ossia di cibi ottenuti attraverso l’inserimento di geni esogeni, provenienti, cioè, da specie biologiche animali o vegetali differenti, ma con caratteristiche vantaggiose. Affidabilità e sicurezza costituiscono, infatti, dei valori e il garantire la sicurezza è una norma che deriva da un principio etico tradizionale fondamentale, il principio, cioè, di non arrecare danno.
Lo stabilire o il decidere l’ammissibilità morale di determinate ricerche e applicazioni, però, non è un procedimento diretto, o per lo meno altrettanto immediato quanto la percezione di un problema o dilemma etico; soprattutto nelle frequenti situazioni conflittuali che contraddistinguono la ricerca e lo sviluppo tecno-scientifici attuali, – in cui sono spesso in gioco diversi valori e molti interessi, – e a maggior ragione in un contesto sociale e istituzionale “plurale”, sempre più caratterizzato da una molteplicità di tradizioni e di sensibilità culturali, etniche, morali e confessionali non convergenti. Un giudizio di ammissibilità morale (un giudizio etico), infatti, è un giudizio in cui si stabilisce la conformità o la non conformità a determinati valori oppure il rispetto o il non rispetto di determinati principi.
È, cioè, un giudizio pratico, che si pone al termine di un procedimento valutativo che può essere, a volte, estremamente complesso, in quanto deve tenere conto di tutti gli elementi moralmente rilevanti implicati nell’insorgere di una situazione conflittuale. Per questo, in sede di analisi bioetica riveste particolare importanza, dal punto di vista metodologico, il cercare di individuare prima di tutto le ragioni e le condizioni dell’emergere di una problematica etica, per procedere poi ad una definizione e valutazione del conflitto in atto, ossia, all’identificazione, al confronto e al bilanciamento dei valori e degli interessi implicati.
Ma è anche importante (sempre dal punto di vista metodologico) distinguere dei livelli di riflessione etica e degli ambiti di valutazione. La valutazione delle situazioni conflittuali infatti può variare a seconda dei livelli di ricerca considerati e degli ambiti di applicazione. La bioetica, pertanto, non è una disciplina, ma nasce e si sviluppa come metodo o, se vogliamo, – per sottolineare l’esigenza metodologica di una previa impostazione del procedimento valutativo, – come etica procedurale del discorso, che consenta una risoluzione non violenta dei conflitti di valori, una mediazione pacifica degli interessi in gioco, in funzione di una produzione di accordi e di consensi concernenti regole minimali che permettono di continuare una certa cooperazione e vita in comune, nonché la realizzazione di istituzioni, di procedure (per es. di comitati di etica) che formalizzano questo modo di risolvere i conflitti, nell’assunzione e riconoscimento di dissensi, provvisoriamente irriducibili, lasciando agli individui e alle comunità civili o confessionali di appartenenza certi aspetti della regolazione dell’esistenza morale, in relazione alla ricchezza del loro bagaglio di “valori aggiunti”.
Il pericolo di questo tipo di procedura, però, è che divenga o permanga formale, ossia, una specie di tecnologia istituita della risoluzione dei conflitti etici. Se domina esclusivamente questo aspetto, si rischia di conferire autorità morale a una conclusione o decisione, semplicemente perché è stato formalmente seguito un certo cammino istituzionale, quale che sia la qualità del dibattito e degli interlocutori. Una riflessione più approfondita che vada oltre le immediate apparenze e le diverse emozioni è pertanto auspicabile. Nell’ormai vastissima letteratura bioetica internazionale ho trovato un’antica metafora che descrive molto bene la dimensione etica della ricerca e sperimentazione tecno-scientifiche contemporanee e la sua dinamica propria.
È la celebre metafora kantiana [Emmanuele KANT (1724-1804)] del volo della colomba che, secondo alcuni autori, il filosofo tedesco avrebbe ripreso da un antico trattato di teologia morale, adattandola ad un contesto di riflessione epistemologica sul rapporto scienza e filosofia. La ricerca tecno-scientifica può essere paragonato al volo della colomba nell’aria.
Il volo della colomba simboleggia lo slancio della ricerca tecnoscientifica verso conoscenze sempre nuove. L’aria simboleggia l’etica con i suoi valori (o la morale con le sue norme e regole). Nel suo bisogno di progredire, la ricerca tecno-scientifica può sentirsi frenata dai vincoli dell’etica allo stesso modo in cui la resistenza dell’aria può ostacolare il volo impetuoso della colomba, nel suo sfrenato desiderio di conquistare spazi nuovi e inesplorati. La colomba, tuttavia, ha bisogno dell’aria: essa costituisce il mezzo naturale in cui può volare.
Nel vuoto, infatti, la colomba cadrebbe e morirebbe. Ma anche l’aria (l’etica) ha bisogno della colomba (la ricerca tecnoscientifica). Che cosa sarebbe infatti l’aria senza la colomba? Rischierebbe di essere uno spazio vuoto, banale, per non dire irrespirabile. Se questa metafora è suggestiva, un difficile problema delle nostre società democratiche, caratterizzate da crescente multiculturalità, multietnicità e multiconfessionalità, è lo stabilire le condizioni e la qualità dell’aria “ottimale” in cui la colomba può dare il meglio di sé. Il percorso che proponiamo costituisce una preziosa occasione per conoscere di più, interrogarci insieme e riflettere.