Firenze – Il libro “Il giorno in cui i fanti marciarono muti” di Gabriele Parenti, storico e giornalista, effettua una panoramica sulle origini della prima guerra mondiale e un focus sulle vicende dell’Italia prima e dopo il fatidico 24 maggio. Un libro dunque che indaga una parte della storia del nostro Paese che sta diventando tragicamente attuale proprio in questi giorni, quando venti di guerra sembrano ricominciare a spazzare la Penisola.
In particolare il saggio di Parenti cerca di rispondere ad alcune domande che si pone chiunque si avvicini a questa pagina drammatica della storia contemporanea. L’autore esamina documenti diplomatici, memoriali di capi di governo, ministri ed esponenti politici di rilievo e ,in particolare, analizza le varie opinioni espresse dalla storiografia passata e recente. Ripercorre, quindi, le vicende politiche che portarono l’Italia nella Triplice alleanza, poi a dichiararsi neutrale nel 1914 e a scendere in guerra a fianco dell’Intesa nel 1915. Perché si passò dalla neutralità all’intervento? Perché fallirono le trattative con gli Imperi centrali e come si giunse al Patto di Londra? Ciò richiede di analizzare la crisi del luglio 1914 ed il precipitare dell’Europa nel conflitto che “non sarebbe dovuto scoppiare” perché c’erano molte possibilità di evitarlo. Inoltre, la Grande guerra fu molto diversa da quelle del XIX secolo ma non se ne ebbe adeguata percezione.
Un excursus sugli antefatti storici e sulle vicende belliche permette di valutare come cambiò il clima tra gli uomini di governo, nell’esercito e nel paese e come il ruolo dell’Italia fu percepito dagli alleati.
Il saggio di Gabriele Parenti si avvale di una prefazione del prof. Zeffiro Ciuffoletti il quale lo ha definito “un ottimo lavoro sia per la larghezza delle informazioni e della conoscenza storiografica di base sia per la chiarezza con cui è scritto. È un libro che consiglierei di leggere a tutti. Leggendolo, ho appreso tante cose nuove, particolari significativi, ma più che altro ho apprezzato una interpretazione non solo aggiornata sulla più recente storiografia europea, ma anche equilibrata”.
E Riccardo Nencini, attuale viceministro infrastrutture e trasporti, nell’introduzione osserva che il libro si sfoglia con piacere. I punti cardinali di un dramma epocale ci sono tutti. Davanti ai nostri occhi come fossero ancora vivi, sottolinea che “Quanto al ribollire delle piazze italiane fomentate da futuristi, irredentisti,[…] Parenti vi accende un riflettore decisivo perché è lì che matura il rovesciamento della posizione neutralista largamente maggioritaria in Parlamento. Si tratta della prima vera sconfitta delle istituzioni dal tempo dell’unita’ d’Italia, trascinate lontano da decisioni già prese grazie a un massiccio lavoro fatto da carta stampata e movimenti politici sull’opinione pubblica”.
Stamptoscana ha posto qualche domanda all’autore Gabriele Parenti.
Fu davvero una deriva inarrestabile quella che portò alla grande guerra?
“Così è stata ritenuta da vari storici dopo la conclusione del conflitto, quasi che l’immane massacro fosse stato opera di un destino ineluttabile. Ma la storiografia più recente mostra che non fu così. E in questo libro analizzo gli errori, le incomprensioni che impedirono di spegnere la miccia accesa dall’attentato di Sarajevo”.
Dopo Sarajevo si tentò di comporre il conflitto in modo diplomatico?
“La Gran Bretagna propose una conferenza internazionale per trovare una soluzione. Ma non trovò consensi. Infatti, quando l’Austria Ungheria inviò l’ultimatum alla Serbia, i due blocchi contrapposti, ossessionati di essere preceduti dal nemico innescarono il meccanismo delle mobilitazioni e i tentativi di fermarle, furono considerati solo espedienti per guadagnare un vantaggio strategico”.
Lei ha parlato di un paradosso. Quale?
“A differenza della seconda guerra mondiale, provocata dall’aggressività hitleriana e alla quale bisognava assolutamente contrapporsi, la prima guerra mondiale, in realtà non la voleva nessuno. Le potenze dell’Intesa temevano di essere attaccate di sorpresa dagli Imperi centrali. Ma anche la Germania, per bocca del ministro degli Esteri tedesco Jagow riteneva che la Serbia avesse soddisfatto le condizioni dell’ultimatum. Il vero paradosso, che ho cercato di dimostrare, esaminando l’atteggiamenti dei vari governi, è che il maggior fattore scatenante fu la paura. Ognuna delle grandi potenze temeva di essere attaccata e poiché, secondo la dottrina militare dominante l’attacco era, erroneamente, considerato risolutivo,tutti volevano giocare d’anticipo. La guerra di trincea dimostrò ,invece, che, su tutti i fronti, la difesa era più forte dell’attacco. E questo fu un altro paradosso della guerra “che non sarebbe dovuta scoppiare”
L’Italia tradì la triplice Alleanza, come dissero a Vienna?
“No. E questo fu riconosciuto anche dalla Germania e dalla stessa Austria come attestano le trattative sui compensi dopo la dichiarazione di neutralità. Ho esaminato dettagliatamente il Trattato della Triplice alleanza e appare evidente che poiché Vienna non ne aveva rispettato le clausole, l’Italia non era obbligata a combattere”.
Perché entrò in guerra , se poteva avere vantaggi territoriali anche con la neutralità?
“Effettivamente, i compensi offerti dall’Austria-Ungheria divennero progressivamente più consistenti e tali da soddisfare le richieste degli irredentisti. Il vero motivo fu la preoccupazione che se avesse vinto la guerra, l’Austria avrebbe voluto chiudere i conti con l’Italia. Ci fu anche in vari ambienti e da parte di autorevoli esponenti politici, il timore che l’Italia, restando neutrale,avrebbe perso lo status di grande potenza”.
L’apporto dell’Italia alla conclusione del conflitto fu importante oppure marginale?
“L’Italia dette un contributo importante; con la resistenza sul Piave e la successiva offensiva impedì che l’Austria potesse affiancarsi alla Germania nell’ultima spallata che nel 1918 portò nuovamente i tedeschi alle porte di Parigi. Il crollo dell’impero asburgico ebbe un forte impatto psicologico anche a Berlino e anticipò la resa della Germania. Parigi e Londra, alla Conferenza della pace tendevano a sminuire il ruolo dell’Italia per ridurne le pretese territoriali in Dalmazia”.
Come cambiò il paese in quei quattro anni di guerra?
“Fu un cambiamento profondo. L’Italia aveva un’economia debole e se tutta l’Europa era stremata, noi eravamo in una situazione critica. La crisi economica, la forte inflazione, portarono agli scioperi del “biennio rosso” e il fascismo ne approfittò. Inoltre , i soldati che avevano combattuto per quattro anni, si attendevano miglioramenti che erano stati più volte promessi,specie ai contadini che aspiravano al possesso della guerra. Ne scaturirono nuovi malcontenti, si ritenne che un così immane sacrificio non fosse stato riconosciuto, mentre i ceti medi erano rovinati dall’inflazione. Anche qui i fascisti trovarono terreno fertile”.
Perché un lungo capitolo del libro è dedicato alla guerra di Libia?
“Per più motivi. Anzitutto, perché nell’impresa di Libia si è individuata una delle cause remote della guerra mondiale, in quanto la destabilizzazione dell’ Impero ottomano dette la spinta per le due guerre balcaniche che inasprì la rivalità austro-serba. La seconda ragione è che dall’avventura libica trassero nuovo vigore le ideologie nazionaliste e interventiste. La terza è che le difficoltà incontrate a Tripoli indussero Giolitti a dubitare della capacità bellica del nostro esercito e ad adoperarsi per mantenere la neutralità. Una quarta ragione, è che in Italia, dopo il 24 maggio, si pensava ancora ad una guerra breve, ad una sorta di “grande Libia” secondo l’acuta osservazione di un diplomatico francese”.
Perché questo titolo?
“Con una lettura “trasversale” ovviamente non data e non voluta dall’autore della canzone del Piave ho inteso sottolineare che la guerra nasceva tra varie perplessità. Una minoranza interventista l’aveva voluta ma forse i fanti si chiedevano quanto fosse davvero necessaria e quanti sacrifici avrebbero dovuto sopportare. Ho pensato quindi a un esercito che si avviava al fronte senza baldanza ma con l’incedere silenzioso di chi adempie un dovere senza capire in nome di cosa l’intera Europa fosse precipitata nella Grande guerra”.
foto: Archivio Centrale dello Stato