Prato – Una risata ci salverà. Da noi stessi. E dalle nostre ossessioni di possesso, di accumulo schizofrenico, e dall’avidità di avere che è l’antitesi perfetta della felicità dell’essere. Con lo spettacolo Plutocrazia, della compagnia teatrale Archivio Zeta, in scena fino al 21 maggio al teatro Magnolfi di Prato, si ride. Alle volte anche di gusto, di fronte ad un Karl Marx che rifugge dalla parola “compagni” e ancora di più da quella di “povertà”, quasi si fosse (anche lui) convertito al capitalismo sfrenato. Accanto alle risate, però, come è tradizione negli spettacoli dei due bravissimi attori Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti, si riflette. Sulla società che abbiamo costruito, su noi stessi, sulle nostre perversioni e sulle nostre miserie umane. Si riflette insomma su quella che è la nuova forma di governo accettata e osannata da tutti, ovvero la Plutocrazia, che è governo della ricchezza. Pluto è infatti la Ricchezza nella omonima commedia aristofanesca dalla quale la piece prende spunto, per poi essere dissacrata, sminuzzata e infarcita di idee, scritti e suggestioni che spaziano da Goffredo Parise, a Franco Belli fino ad arrivare a Noam Chomsky. Il risultato è sorprendente. Quando il sipario cala, vorresti rivedere tutto dall’inizio per cogliere quelle sfumature che, di sicuro, sai che sono sfuggite al primo sguardo. E come nel testo di Aristofane, anche in Plutocrazia, vengono rappresentate la Ricchezza (cieca, casuale, certamente non meritocratica) e la Povertà, che al contrario ci vede benissimo.
La Povertà, interpretata da una magnifica Enrica Sangiovanni, è insieme la figura più umana e tragica. Arriva dirompente su di un palco coperto interamente di stracci (facile coglierne l’allusione al passato economico di Prato, e al suo presente in versione “cinese” dei pronto moda) e ride anch’essa, prendendoli in giro, sia il contadino aspirante imprenditore (un piratesco Gianluca Guidotti) che sogna di liberarsi di lei (della Povertà), sia Karl Marx (interpretato dall’esilarante Ciro Masella) che sembra più impaurito del contadino stesso all’idea di una vita segnata dalla povertà.
Ai due dice letteralmente: “Ora vi faccio il culo”. Si ride di nuovo, ma poi arriva un momento straordinario di riflessione: come una novella madre di Cecilia di manzoniana memoria, in tutta la sua dignità (stracciona), la Povertà spiega ai due atterriti compagni (ops, soci) quanto sia importante il suo ruolo, ma soprattutto quanto sia diversa dalla miseria.
Liberati dalla necessità del guadagno, infatti, nessuno di noi sarebbe più disposto a lavorare.
E si sa, il lavoro nobilita l’uomo. E per questo abbiamo in odio la povertà, perché ci costringe ad essere migliori, lavorando. Altro discorso è la miseria. È la fame nera e la mancanza delle cose che ci sono veramente indispensabili. La parola “decrescita” non viene mai pronunciata ma non ce n’è bisogno. In fondo, ognuno di noi la può chiamare come preferisce, il concetto di fondo rimane comunque lo stesso. E in ulteriore, e splendido, volo pindarico ecco che la scena finale è lasciata al video che proietta le frasi dei lavoratori cinesi raccolte nel saggio “Vendere e comprare. Processi di mobilità sociale dei cinesi a Prato” dei sociologi Fabio Berti, Andrea Valzania e dalla sinologa Valentina Pedone, ed interpretate dai partecipanti all’Atelier Archivio Zeta, il laboratorio che i due attori hanno tenuto nei mesi scorsi per “ripensare” la commedia di Aristofane insieme agli abitanti di una delle città più inclini all’operosità, e al lavoro. Pronunciate con il tipico accento pratese, sentiamo elencare le fatiche, i dolori e spesso i rimpianti di tanti lavoratori cinesi arrivati a Prato per una vita migliore: “Vivo come uno schiavo”, “Lavoro più di 10 ore al giorno”, “A Prato non ho nessun amico”. Per chi ha confidenza con il teatro greco, non sfugge il riferimento al coro dei Persiani di Eschilo. Nel frattempo, infatti, Pluto (la Ricchezza) ha riacquistato la vista grazie ad un guaritore cinese, e ora il benessere può essere a portata di mano anche dei lavoratori dell’ultima nazione dichiaratamente comunista. Comunisti votati alla causa del capitalismo sfrenato, dunque. Sarà lo stesso cortocircuito ideologico di cui è stato vittima l’irriconoscibile Karl Marx? Chi lo sa, ma è lecito ipotizzarlo.
Ma anche senza andare a disturbare autori classici e ideologie moderne, a fine rappresentazione, le domande che ti ronzano e ti punzecchiano la testa, come il ticchettio delle macchine da cucire dei laboratori tessili, sono essenzialmente due, una più intima, e l’altra più universale: che senso ha lavorare come uno schiavo per comprare cose di cui non ho bisogno? Non è forse il caso di ripensare questo modello di sviluppo, disumano e infelice?
Il dubbio s’insinua, e il Teatro (quello vero) è servito.
Foto di Franco Guardascione