Firenze – Il Rinaldo di Georg Friedrich Haendel con le scene e la regia di Pier Luigi Pizzi è una delle più emozionanti esperienze di spettacolo barocco che può essere proposto agli appassionati. Un pezzo unico nel quale si realizza l’unità assoluta delle componenti artistiche del teatro dell’opera: la musica, il libretto, le scene, la drammaturgia.
Il capolavoro di Pizzi (che quest’anno compie 90 anni) viene riproposto in questi giorni dal Teatro del Maggio come prima opera che rientra all’interno del teatro dopo l’estate post Covid della Cavea (ultima replica domenica 13 settembre alle ore 15,30).
Spettatori a ranghi ridotti, ma pronti a esprimere il loro entusiasmo con effetti da pienone: a parte il trionfo finale, non c’è stata praticamente aria, duetto e sinfonia che non sia stata sottolineata da lunghi applausi. Festeggiati i cantanti a cominciare dal controtenore Raffaele Pe (Rinaldo) e poi tutti gli altri: Leonardo Cortellazzi (Goffredo), Francesca Aspromonte (Almirena), Andrea Patucelli (Argante), Carmela Remigio (Armida) William Corrò (mago cristiano) Marilena Ruta e Valentina Corò (le sirene) e Shuxin li (araldo).
Ma festeggiato soprattutto il direttore Federico Maria Sardelli che ha portato l’orchestra a valorizzare la grande ricchezza musicale della “prima opera italiana prodotta in Inghilterra” (1711). A caccia di un successo definitivo e incontestabile nella difficile piazza londinese, Haendel ha messo il meglio della sua produzione italiana (tra cui la celeberrima Lascia ch’io pianga mia dura sorte”) in questo lavoro che il suo impresario Aaron Hill ha trasformato scenograficamente in uno sbalorditivo spettacolo per allietare i nobili spettatori con “accidenti, intrecci, canzonette, mutazioni di scena e, balli e combattimenti”.
Lo stesso sbalordimento che provoca il lavoro scenografico e registico di Pizzi nell’allestire il Rinaldo 35 anni fa per il Teatro Valli di Reggio Emilia ricostruito in coproduzione fra i Teatri di Reggio Emilia, il Teatro La Fenice di Venezia e il Maggio Musicale Fiorentino. Sarebbe dovuta andare in scena tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, ultimo titolo della stagione 2019/2020, già avanti nelle prove, ma poi annullato a causa del lockdown.
Pizzi racconta il concetto registico interpretativo da cui è partito. I congegni e le macchine teatrali barocche “sempre nascosti nelle quinte o nel sottopalco, in questo allestimento diventano protagonisti dello spettacolo, del gioco scenico, caratteristica che ha molto meravigliato i primi spettatori, 35 anni fa, ma che poi è stata una delle componenti del suo successo”.
I 22 “figuranti speciali”, vestiti di nero con una protezione metallica sulla testa, quindi destinati a perdersi nel gioco di luci/ombre magistralmente disegnato da Massimo Gasparon spingono delle piattaforme ruotanti muovendo dunque gli elementi scenografici (draghi, cavalli, barche, trono, caverne di maghi etc.) e i protagonisti su di un livello superiore a quello del palco. L’effetto principale è di imprimere movimento e dinamica in situazioni drammaturgiche tutte piuttosto statiche, com’era la natura dell’opera in quei primi decenni della sua esistenza che puntava molto sul canto e le sue diverse espressioni, estensioni e registri .
Sarebbe forse troppo ragionare anche sulla diversa sensibilità sociale dello spettatore della seconda metà del 900 che può osservare fisicamente sulla scena anche il lavoro fisico e manuale: tutta quella esibizione di arte e bellezza è comunque sostenuta da tante persone in carne e ossa che chiedono visibilità e riconoscimento.
Oggi l’occhio si ferma soprattutto su quella dimostrazione di gusto sopraffino dei costumi e dei loro colori, così come della ingegnosità di alcune soluzioni sceniche che trasformano i singoli momenti drammatici in quadri meravigliosi. Metteteci insieme i suoni degli strumenti barocchi e le capacità vocali del cast e avrete lo spettacolo perfetto.
Verrebbe in mente di suggerire al soprintendente Pereyra e al coordinatore artistico Pierangelo Conte di tentare altri recuperi di grandi allestimenti realizzati in tempi di grande disponibilità di denaro pubblico da parte degli enti lirici. Come The Fairy Queen di Henry Purcell che fu presentato a Boboli nel 1987 con la regia di Luca Ronconi e le scene di Luciano Damiani per la cinquantesima edizione del Maggio Musicale. Fu una grande festa barocca, come quella di Pizzi, che rimase privilegio di un numero ridotto di spettatori. Costò miliardi che potrebbero essere anche ora in piccola parte ammortizzati.
Foto di Michele Monasta