La Traviata al Maggio: Violetta metafora dell’emancipazione femminile

Firenze – La Traviata della stagione autunnale del Maggio Fiorentino diretta da Zubin Mehta. Inchiniamoci sbalorditi di fronte allo straordinario talento e alla teatralità del soprano Nadine Sierra (nonché alla bravura dei comprimari Francesco Meli e Leo Nucci) e riflettiamo sulle scelte del regista Davide Livermore.

Frac e crinoline, parures luccicanti e brillantine, si sono trasformati in abiti e acconciature degli stilisti anni 60 disegnati da Mariana Fracasso e gli interni, nella realizzazione dello scenografo Giò Forma, riproducono fedelmente il design già molto evoluto di quel secondo decennio del dopoguerra.

Ci troviamo nel pieno della contestazione del ’68, i cui slogan appaiono sulle scene come se fossero stati appena scritti sui muri di Parigi. Ci sono anche i poliziotti antisommossa che lanciano lacrimogeni per disperdere il gruppo di gaudenti e libertini che avevano partecipato alla festa (quasi) orgia dove Alfredo e Violetta si sono innamorati.

Partendo da questo punto di vista, si resta interdetti. Il ’68 certo era il momento della liberazione dei costumi, della creatività al potere, dell’antiautoritarismo ma cosa c’entra un campione dell’alta borghesia ricca e impunita, decadente e amorale nella quale la Valéry cercava protezione e bella vita? I soldi avevano da sempre già abbastanza liberato la ricerca del piacere senza bisogno che gli studenti e gli operai andassero a farsi rompere la testa.

Proviamo un momento a cambiare prospettiva concentrandoci solo sulla protagonista. Nell’opera di Verdi appare alla ricerca di una realizzazione della sua identità di donna in una società che la costringe sempre e in ogni caso a dipendere dall’uomo. “Mon corps, mon choix!!!”, il corpo è mio, è mia la scelta, è la parola d’ordine del movimento per l’emancipazione femminile che appare verniciato sulle scene del primo atto, rivelatore della percezione (più che della coscienza).

Violetta sceglie l’unica libertà che la società poteva concederle: mettersi al servizio dell’uomo dal punto di vista sessuale e così poter avere spazi e risorse per crescere nella sua identità femminile. Ma quando decide di vivere la pienezza dell’amore, scattano implacabili i meccanismi oppressivi di un contesto fondato sulla tutela rigida della predominanza maschile: tanto comprensivo, tanto sensibile, tanto amorevole fino a che non si toccano le convenzioni e i meccanismi del conformismo sociale.

Ecco che allora appare comprensibile il concetto registico. Alfredo diventa il bamboccione innamorato che non è capace di gestire la complessità di un rapporto hors des règles, mentre Giorgio Germont è come un monumentale Commendatore mozartiano che non condanna ma, restando formalmente ineccepibile nei modi e negli accenti di dolorosa partecipazione, ottiene il risultato di riportare tutto sotto il tetto rassicurante delle convenzioni.

L’ambientazione sessantottarda risulta dunque un contesto coerente per questa cifra registica sia perché è stato anche culla dei movimenti femministi, sia per la sua natura di ribellione contro il paternalismo autoritario in qualunque forma si presenti.

Tanto più che la metafora scenica viene progressivamente abbandonata da Livermore, seguendo l’evolversi dell’infelice  storia di Violetta. La festa di Carnevale in casa di Flora Bervoix è perfetta nella dinamica di personaggi e figuranti e la tragica conclusione dell’avventura terrena di Violetta rimane aperta: la donna ha compiuto il suo percorso e lascia dietro di sé un messaggio di fiducia per tutte le altre.

Minuti e minuti di applausi il 22 settembre per la grande performance del coro e dell’orchestra e del suo direttore festeggiato con il calore che lo accompagna sul podio del Teatro del Maggio. Ma attenti a Nadine: una che commuove così il pubblico con grandissima tecnica e  presenza scenica fa parte del gruppo delle più grandi artiste.

 

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