Pistoia – L’ultima magia. Dante, 1321 è un romanzo postumo di Marco Santagata, estremo tributo dell’insigne italianista a uno dei suoi poeti prediletti.
Il testo si legge tutto d’un fiato: Santagata regala alle pagine l’accuratezza del documento storico e la vivacità di una narrazione appassionante. Del resto l’opera, nel suo complesso, ben testimonia la poliedrica esperienza professionale dell’autore, dedita anche – soprattutto negli ultimi anni – alla divulgazione dei classici per un pubblico non specialistico.
La finzione letteraria risulta peraltro congeniale all’illustrazione di aspetti più intimi e familiari della biografia dantesca: una formula già sperimentata con successo in Come donna innamorata (Guanda, 2015), finalista al Premio Strega 2015.
Il 28 agosto 1321, Dante sta per intraprendere una missione diplomatica a Venezia per conto del suo nuovo «padrone», Guido Novello da Polenta, tiranno «bramoso di potere e timoroso di perderlo», ma con modi cortesi e un vivo amore per la poesia.
Nella quiete serotina che precede la partenza, il poeta, ormai avanti negli anni, riflette sul senso della felicità, che pare palesarglisi nella sua famiglia finalmente riunita e nelle preziose doti del dimenticare e del compatire, di cui il tempo gli ha fatto dono.
L’aria afosa del giorno morente porta tuttavia con sé anche un vasto flusso di ricordi, che si dipanano ininterrotti a partire dal 1317, anno in cui, esule e sbandito dalla Toscana, egli ha soggiornato presso Cangrande della Scala, in una stanzetta all’ultimo piano del palazzo di Verona.
Sono gli anni fervidi della composizione del Paradiso: l’eterna corte celeste prende vita in un solaio nel sottotetto, mentre lo scaligero – generoso, ma rozzo e illetterato, nonché poco incline a porsi questioni sull’aldilà – schernisce il suo visionario cliente nelle occasioni conviviali.
Raggiunto dalla scomunica del francese Giovanni XXII – siamo ormai negli anni della cattività avignonese – Cangrande invita Dante a recarsi in gran segreto a Piacenza per parlare con Galeazzo Visconti, suo alleato.
Il viaggio parrebbe senza scopo finché, dopo alcune settimane, il signore di Piacenza convoca il maestro di Firenze a colloquio privato e gli mostra una statuetta d’argento: la visione dell’imago scuote profondamente Dante, procurandogli un improvviso attacco epilettico e facendogli perdere conoscenza.
La memoria del poeta si immerge allora in un passato ancor più remoto e torna indietro nel tempo fino al biennio 1306-1307, in cui ha ricevuto l’ospitalità di Moroello Malaspina. L’amicizia con il potente marchese e la fugace storia d’amore con la di lui moglie, Alagia Fieschi, occupano interamente le pagine di questo delicato intarsio, vero cuore del romanzo.
A Mulazzo, in Lunigiana, Dante dà avvio alla redazione dell’Inferno. I versi dedicati alla tormentata vicenda di Francesca da Rimini finiscono per travolgerlo e così, in un raffinato gioco di specchi, il poeta si fa al contempo attore: legge all’amata di Paolo e Francesca – che a loro volta leggono di Lancillotto e Ginevra – e cede infine alla passione dei sensi.
Un nuovo, lungo flashback porta infine ordine nella moltitudine frammentata dei ricordi.
Sono passati dieci anni dal fugace e appassionato incontro amoroso con Alagia: morto ormai Moroello, la marchesa chiede al poeta di perorare la causa di Niccolò, suo ultimo nato, che rischia di rimanere privo della legittima eredità paterna per la prepotenza dei parenti. Dante dovrà dunque recarsi ad Avignone per chiedere la mediazione di Luca Fieschi, cardinale presso la corte papale e fratello della stessa Alagia.
Il Fieschi, persona saggia e timorata di Dio, opera all’interno di un contesto di forte degrado morale, che suscita lo sdegno di Dante. Ospite presso il suo palazzo, il poeta entra presto in relazione con un frate francescano, Ranieri, ancor più draconiano di lui nei giudizi sul clero corrotto e sulla necessità di una palingenesi. Sarà proprio Ranieri a metterlo in contatto con Ugo, vescovo di Cahors, che gli apre gli occhi sulla nequizia del sistema di potere costruito da Giovanni XXII e dai suoi cardinali e soprattutto lo convince della necessità di operare tempestivamente, anche a costo di ricorrere a mezzi non ortodossi.
Così Dante si trova invischiato in un losco caso di maleficio, che rischia di compromettere la sua reputazione di studioso e mettere a repentaglio la sua stessa vita. Dalla terribile esperienza avignonese, conclusasi fortunatamente per lui senza conseguenze, impara che «la chiesa sa perdonare, ma non dimentica». A dirglielo sarà lo stesso Bertrando del Poggetto, braccio destro del pontefice, congedandolo a conclusione della truce vicenda, che colora di giallo gli ultimi capitoli del romanzo.
L’insegnamento sarà utile a Dante qualche anno dopo quando – tornati infine, attraverso una composizione ad anello, alle pagine iniziali – Cangrande della Scala e Giangaleazzo Visconti vorranno di nuovo coinvolgerlo in una congiura, sfruttando la sua presunta fama di negromante.
Con un po’ di fortuna e una certa scaltrezza acquisita con l’esperienza, il poeta riesce non solo a tirarsi indietro dallo sgradito incarico, ma addirittura a ricevere un sostanzioso ringraziamento da parte dello stesso Poggetto, che gli procurerà l’ospitalità di Guido Novello da Polenta insieme all’intera famiglia.
Il flusso dei ricordi svanisce lentamente. Il poeta non può dirsi del tutto pacificato, ma almeno prova quiete nel sapere che la sua opera è compiuta: ogni accadimento del passato trova un suo posto ben preciso nel disegno provvidenziale che ha guidato la stesura della Commedia.
E così, nel tepore della sera del 28 agosto 1321, Dante percepisce con chiarezza che tutto ha senso nel volere di Dio, gloria-luce che move il sole e l’altre stelle.
Stupisce il tono di intima confidenza con cui Santagata interpreta emozioni e sentimenti di un Dante ormai al tramonto della vita, quasi non ne fosse solo illustre studioso, ma anche amico di lunga data. Per nulla dogmatiche, ma anzi del tutto umane, appaiono del resto la dolcezza malinconica e la pacata consapevolezza con cui il sommo poeta, destinato all’eternità grazie ai suoi scritti, pare accomiatarsi da ogni usata, amante compagnia.
L’incedere della sera dona raccoglimento all’intero romanzo, incastonando nella pace gli antichi ardori giovanili e affidando alla notte ormai imminente il mistero dell’avventura terrena di Dante e di ognuno di noi.