Firenze – Il caso Cospito ha messo in luce alcuni profili che, al di là del caso particolare, hanno senz’altro una rilevanza giuridica e sociale di livello nazionale. I punti in questione sono, come ormai noto, sia la legittimità del 41 bis, sia quella dell’ergastolo ostativo. Terzo punto, la salvaguardia della salute del cittadino detenuto nelle carceri statali. Abbiamo raggiunto sulla questione il magistrato, già Procuratore generale di Firenze Beniamino Deidda, uno dei numerosi firmatari dell’appello “all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo” che chiedeva “un gesto di umanità e di coraggio”, con la revoca nei confronti di Alfredo Cospito “per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis, applicando ogni altra necessaria cautela”, definendolo “un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso”. Dalle cronache, sappiamo com’è andata, con tutto lo strascico di polemiche, accuse, controaccuse, in cui la politica non ha dato uno spettacolo sereno. Abbiamo raggiunto l’ex procuratore di Firenze per porgli alcune domande.
In primis, è possibile dividere nel caso Cospito il profilo giuridico da quello politico? E quanto pesa, secondo lei, quest’ultimo?
“Non è facile separare nettamente le questioni giuridiche dalle implicazioni politiche del caso Cospito. Prima di tutto perché ogni norma di legge contiene inevitabilmente una sua intrinseca politicità; e poi perché sono in questione i temi del carcere, della esecuzione della pena e, in particolare della quantità e qualità della pena inflitta. Tutti temi che hanno immediate implicazioni politiche, perché toccano da vicino il rapporto tra lo Stato e i cittadini e le diverse visioni politiche che questo rapporto implica”.
Lo sciopero della fame del detenuto al 41 bis può davvero mettere in crisi la norma, che, ricordiamo, fu pensata per una stagione particolare, quella delle stragi, per profili di detenuti particolari, i boss mafiosi, e con un inquadramento che ne aveva previsto la temporaneità?
“Lo sciopero della fame è una forma di protesta appartenente ad una tradizione non violenta che non può, di per sé, indebolire o ‘mettere in crisi’ nessuna norma dell’ordinamento statale, e quindi nemmeno l’art. 41-bis. Semmai lo sciopero della fame del detenuto Cospito ha avuto l’effetto di aprire una ampia discussione sul regime carcerario del 41.bis, finora rimasta nell’ambito ristretto degli addetti ai lavori e dei giuristi. Finalmente si discute di una norma che, nelle previsioni del legislatore, era destinata esclusivamente a contrastare la criminalità organizzata, impedendo al detenuto di mantenere i contatti e i legami con l’organizzazione cui apparteneva.
Bisogna anche ricordare che in taluni casi l’applicazione pratica dell’art. 41-bis ha dato luogo a trattamenti carcerari inutili allo scopo stabilito e tali da provocare sofferenze ulteriori rispetto alla pena inflitta, che nulla hanno a che fare con la finalità della norma. Quando questo accade la pena diventa disumana e travolge i confini dell’art. 27 della Costituzione. Da tanto tempo la Corte Costituzionale ci ha ricordato (sent, 376/1997) che anche nel caso del regime di cui all’art. 41-bis, è sempre necessario tenere in considerazione i riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato, contenuti nell’art. 27 della Costituzione. Altre volte la Corte è dovuta intervenire per dichiarare, ad esempio, l’illegittimità del divieto di cuocere cibi in cella (sent. 186/2018), oppure della censura sulla corrispondenza dei detenuti coi loro difensori”.
Qalcuno parla di ricatto allo Stato, qualcun altro ricorda che si tratta di una norma che non persegue la finalità costituzionale della rieducazione del condannato. Lei pensa che possa continuare ad essere utile?
“Mettiamo un po’ d’ordine tra tante voci un po’ confuse, che appaiono sui mezzi di informazione. E’ difficile contestare l’utilità del 41-bis. Basta ricordare che in un passato non molto lontano è stato assai utile per interrompere i contatti tra i detenuti mafiosi e le cosche di appartenenza. C’è stato un tempo in cui i boss di mafia e di camorra spadroneggiavano nelle carceri. Chi non ricorda i tempi di Cutolo e i cedimenti dello Stato allo strapotere della criminalità? Quei tempi sono alle spalle e il 41 bis ha certamente avuto un ruolo importante.
Ma dobbiamo aggiungere che questo istituto, che originariamente doveva durare tre anni, si è progressivamente trasformato in un regime duraturo che prevede: l’isolamento quasi totale; due ore d’aria al giorno, contro le quattro degli altri; un colloquio di un’ora al mese, invece di sei, e solo con i familiari, separati da un vetro, tranne se il familiare ha meno di dodici anni; la sorveglianza 24 ore su 24; il controllo della posta; la registrazione delle telefonate e degli incontri. E così via, talvolta con afflizioni assolutamente estranee allo scopo per cui il 41 bis è stato pensato. Che senso ha negare al detenuto di usare le matite o i quaderni, vietargli di tenere le foto dei familiari, negargli la lettura dei libri o dei giornali? Sono misure irragionevoli e degradanti, puramente afflittive, che non perseguono certo lo scopo principale della pena che è, come impone l’art. 27 della Costituzione, la rieducazione del condannato.
Quanto al ricatto nei confronti dello Stato, evocato da Nordio, che consisterebbe nel fatto che Cospito usa il deperimento del suo corpo per costringere lo Stato a revocare il 41-bis, si tratta di un paradosso che oscura la verità. Lo sciopero della fame e il digiuno sono l’unica arma a disposizione del detenuto, arma nobile di protesta storicamente non violenta,
Non può rappresentare un ricatto per nessuno Stato che si rispetti. Uno Stato capace di coniugare la forza con la giustizia, non cede alle minacce e non si fa condizionare. E tanto più si mostra forte quanto più si attiene ai principi della Costituzione e dell’umanità. Questa volta è in gioco la vita di una persona, un uomo allo stremo delle forze che non può più costituire una minaccia per nessuno e tanto meno per lo Stato. Si sono ormai verificate, a me pare, le condizioni per la revoca del 41-bis. Il Ministro Nordio sa bene che si tratta di un atto amministrativo, che può essere revocato quando vengano meno le circostanze che lo giustificavano. Mantenere oggi Cospito in regime carcerario afflittivo é solo un atto di crudeltà vietato anche da un altro articolo della nostra Costituzione: «È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà» (art. 13, comma 4). Quando è in gioco la vita di una persona, il valore della vita prevale su ogni altro principio, sia pure importante com’è l’astratta applicazione della legge. Uno Stato davvero forte sa trovare sempre il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e quelle dell’umanità”.
La ratio della norma sembrerebbe dunque essere quella di interrompere la catena di comando che intercorre fra i boss e i loro subordinati gerarchicamente. E’ il caso di Cospito?
“Ho già chiarito qual è lo scopo che la legge assegna all’art. 41-bis. Non sono in grado di dire se sia stato correttamente applicato nel caso di Cospito. Non conosco tutti gli atti che erano a disposizione della Ministra Cartabia quando ha firmato il provvedimento. Mi limito ad osservare che, diversamente dalla mafia, la galassia anarchica non può essere ritenuta nella sua totalità una società criminale. E’ noto che l’anarchia non prevede l’esistenza di capi o di strutture organizzate. Ciò naturalmente non esclude che ci siano anarchici criminali che tengono contatti tra loro. Mi pare di capire però che nella recente conferma del 41-bis da parte del Ministro Nordio, non si faccia cenno a contatti segreti del Cospito con i compagni anarchici, quanto piuttosto alla manifestazione delle sue idee sulla necessità della lotta, che avrebbero incoraggiato i recenti attentati degli anarchici. Ma gli elementi che giustificano l’applicazione del 41 bis non possano consistere nella ‘propaganda’ delle idee politiche del detenuto ( propaganda che può facilmente essere contenuta con la censura dei messaggi) quanto piuttosto nel pericolo concreto che si possano comunicare segretamente ordini o istruzioni per compiere azioni eversive o criminose. E non mi pare che si possa attribuire al Cospito di avere diretto o suggerito segretamente azioni criminose ai suoi compagni. E’ chiaro che non sono pericolose le dichiarazioni ad alta voce del detenuto, ma solo quelle segretamente dirette agli appartenenti all’organizzazione criminale”.
Tccando il tema dell’ergastolo ostativo, sembrerebbe che anche questa fattispecie sia un po’ al di fuori del dettato costituzionale. L’elemento che desta una certa curiosità, inoltre, è la possibile attribuzione a Cospito dell’ergastolo in questione, nonostante il tentativo di “strage” sia andato a vuoto. Senza voler mettere in discussione le decisioni dei giudici nel merito, a livello generale, si potrebbe parlare di sproporzione fra fatti e pena? La possibilità di accedere ai benefici previsti dalla legge se si collabora con la giustizia rimette in un certo senso la pena all’interno del dettato costituzionale?
“Personalmente ritengo che la pena dell’ergastolo sia difficilmente conciliabile con la Costituzione, ma la Corte Costituzionale è stata finora di diverso avviso. Invece nel 2021 si è pronunziata negativamente sull’ergastolo ostativo, dando al Parlamento un anno di tempo per disciplinare la materia alla luce del dettato costituzionale. Il governo recentemente ha ottemperato all’invito della Corte varando un provvedimento che, pur apportando qualche correttivo, secondo il mio parere, ha sostanzialmente mantenuto i profili di incostituzionalità. Ma su questo prima o poi dovrà nuovamente pronunziarsi la Corte.
Che a Cospito sia stata inflitta la pena dell’ergastolo non sorprende, data la modifica dell’imputazione a suo carico, Certo resta la sensazione di una vicenda il cui esito processuale appare sproporzionato alle conseguenze del reato commesso, che non ha registrato vittime. Si tratta comunque di un reato grave, ma nel nostro paese altre stragi potevano ben essere qualificate come ‘attentati alla sicurezza delle Stato’. Penso alla strage di Bologna, a quella di Capaci, alla strage di piazza Fontana, ecc,; tutte in qualche modo volute proprio per attentare alla sicurezza dello Stato. Eppure per nessuna di esse è arrivata la condanna per strage.
Quanto poi alla collaborazione con la giustizia come unica condizione per accedere ai benefici, vorrei chiarire che si tratta di di uno dei punti su cui la Corte Costituzionale ha mosso le censure più rilevanti. Ci sono varie motivazioni che giustificano la mancata collaborazione: non avere niente da rivelare, oppure lo scrupolo di coinvolgere una persona cara o un familiare, ecc.
Lo Stato non può pretendere di violare l’intimità della coscienza dei detenuti. Deve solo accertarsi che non esistano più collegamenti o vincoli con le organizzazioni criminali prima di concedere loro i benefici previsti dalla legge”.