Questa mattina al bar del Casinó municipale di Levanto il vecchio Martino, genovese, uno che il viso l’ha avuto indurito dal sole preso non sui pescherecci del golfo ma nel meno affascinante piazzale della gloriosa OTO Melara di Spezia, me l’ha ricordato: “e disgrazie son sempre pronte comme e tôe dell’ôstaja”.
Come le tavole dell’osteria, quelle poche che ancora dominano dall’alto di un terrazzamento il Mare Nostrum, resistendo solitarie all’omologazione culturale che nel nostro Paese é sempre più anche omologazione di sciocchezze, di frasi vuote e di tavoli. Un tavolo per tutto, per non concludere nulla, tranne che per un’osteria (che sarebbe l’unica cosa buona).
La brutta, terribile e preannunciata, notizia, ultima di una lunga triste sequela, é arrivata anche qui: il mare ha inghiottito altre vite.
Disperati verrebbe da dire, gente in fuga da guerre e fame, da disastri di vario tipo e natura spesso originati dall’inebriante cavalcata impazzita della decolonizzazione selvaggia degli anni settanta e dal modernismo di plastica esportato dal mondo occidentale.
Ho sentito dire che di fronte ad un naufragio in mare occorre “aprirsi al dialogo”, “abrogare la legge Bossi-Fini” ed “aprire un tavolo serio sull’immigrazione”.
Verrebbe da chiedersi se con la sentina piena d’acqua, un incendio a bordo nel bel mezzo del Canale di Sicilia, un imbarco clandestino in territorio straniero, aprirsi al dialogo o proporre di abrogare una legge (taccio sul tavolo) possa servire a tirare la nave in rada. Roba da non credere.
Il Pontefice grida alla vergogna (e confido abbia detto anche un Requiem). Ha ragione.
Ed in effetti c’è da vergognarsi.
C’è da vergognarsi a vivere in un Paese dove il dibattito sull’immigrazione é polarizzato, in primo luogo – purtroppo – nell’animo più profondo delle persone, tra le barbarie dello “sparare ai barconi” ed i nonsense à la page del prevedere “forme di sicuro approdo sul nostro territorio”.
C’è da vergognarsi, questo sì, a non avere impostato una seria politica mediterranea di sviluppo locale, come peraltro recentemente suggerito dallo stesso Pontefice, ed a non impedire a monte – come invece occorrerebbe fare – in modo rigoroso i viaggi della morte.
C’è senza dubbio da vergognarsi a citare alla rinfusa convenzioni europee (fatte da gente che mai ha percorso “le strade che riescono agli erbosi”) senza provare neppure ad immaginare una soluzione tutta italiana, genuinamente e schiettamente mediterranea.
Pensare al Mar di Sicilia come ad un circolo di tiro a segno o all’Italia come una prateria materialmente capace di accogliere gli immensi flussi migratori africani e mediorientali sono due visioni assurde e dannose. Non sono degne del nostro passato, della nostra tradizione cattolica romana ed umanista e soprattutto della discreta intelligenza di cui siamo storicamente (e mediamente) dotati e che, pur attualmente offuscata, può ancor oggi agevolmente portarci a riconoscere nello straniero un essere umano e non un tordo ed a capire che il triveneto non necessita di essere popolato come il West.
Tra questi due estremi si colloca, speriamo, una terza via: quella fatta di carità e non di pietismo, di accoglienza e non di solidarismo, di fatti e non di parole, di identità, ordine, rigore e realismo.
Che il Patrono d’Italia, lui che, maestro del vero dialogo con l’Islam e l’Oriente, per primo percorse lo stesso tratto di mare – oggi cimitero di uomini e dell’Europa dell’Euro – possa illuminarla.
Alessandro Nironi Ferraroni