Firenze – Uno dei momenti più terribili era il bombardamento dell’artiglieria. Rannicchiati nelle trincee, i fanti lo subivano con la paura di essere spazzati via dalle granate o, peggio ancora, di finire sepolti vivi. I sopravvissuti si trovavano accanto corpi martoriati di commilitoni e quando il bombardamento finiva, il sospiro di sollievo era di breve durata perché, da un momento all’altro, si doveva affrontare la fanteria nemica. Ma era ancora peggio quando si doveva andare all’attacco, perché si avanzava allo scoperto contro le trincee e le mitragliatrici.
Le offensive non erano mai decisive: nella guerra di posizione la difesa era più forte; così, dopo un pesante tributo di morti e feriti, si tornava sulle linee di partenza.
Uno scenario ben diverso da quello delle guerre risorgimentali che si risolvevano con una o due battaglie in campo aperto. Eppure, si pensava che anche la guerra si potesse concludere dopo poche settimane La propaganda interventista non poteva che prospettare una rapida avanzata su Trento e Trieste e c’era chi sperava di raggiungere rapidamente Lubiana per aprirsi la via verso Vienna.
La ricorrenza del 4 novembre di cui si celebra quest’anno il centenario, induce a una duplice considerazione: da un lato ricorda la vittoria nella prima guerra mondiale, a un anno di distanza dalla rotta di Caporetto che aveva esposto l’Italia al rischio di un’invasione. Ma, contemporaneamente, ci fa riflettere sull’assurdità di una guerra che costò all’Italia oltre 651mila morti, ai quali si devono aggiungere le molte vittime civili.
Se il secondo conflitto mondiale fu provocato da Hitler e dalla necessità di resistere all’aggressione della Germania nazista, la Grande guerra scoppiò, invece, per un assurdo braccio di ferro: ognuno dei due blocchi voleva indurre l’altro a compiere un passo indietro, e tirava la corda pensando di potersi arrestare sull’orlo del precipizio.
Inoltre, paradossalmente, uno dei detonatori fu la paura. Le strategie basate sulla guerra lampo davano per scontato che chi attaccava per primo avrebbe avuto partita vinta. Questa convinzione fu smentita dai fatti perché su tutti i fronti la difesa si dimostrò più forte dell’attacco ma nel 1914 era temuta al punto che la mobilitazione delle truppe era considerata un atto di guerra. All’ultimo momento sia il Kaiser tedesco che lo Zar cercarono di spegnere la miccia delle mobilitazioni ma ormai non era più possibile.
Quanto all’Italia, sappiamo che avrebbe potuto ottenere Trento e (forse) Trieste mantenendo la neutralità perché l’Austria, impegnata contro la Russia, temeva molto l’apertura di un nuovo fronte. Quindi l’entrata in guerra, più che per il completamento dell’unità nazionale fu per ottenere vantaggi territoriali oltre l’Adriatico e per impedire che un’eventuale vittoria degli Imperi centrali portasse a una sorta di spedizione punitiva contro l’Italia considerata “traditrice” sebbene, in base al trattato della Triplice alleanza avesse avuto tutti i diritti di mantenersi neutrale.
Quando le agitazioni di piazza di una minoranza interventista indussero il governo a scendere in guerra, questa scelta fu poco compresa dall’opinione pubblica. E quando l’esercito italiano si logorò in una serie di sanguinosi attacchi frontali sull’Isonzo che s’infrangevano contro le fortificazioni e le postazioni di mitragliatrici, il morale delle truppe e della popolazione civile subì duri colpi.
Poi venne il disastro di Caporetto. Lo sfondamento operato dai tedeschi (uno dei reparti d’assalto era comandato dal ventiseienne Rommel) con una nuova tattica d’infiltrazione fra Plezzo e Tolmino si ampliò rapidamente e la rottura del fronte fece temere che le truppe austro-tedesche potessero dilagare in tutto il nord Italia.
A questo punto la guerra cambiò volto. Di fronte all’invasione del territorio nazionale il Paese seppe reagire. Gli sbandati furono riorganizzati in pochi giorni in nuovi reparti che si attestarono sul Piave, le industrie produssero in tempo record nuovi pezzi di artiglieria, fucili, munizioni per rimpiazzare le armi perdute durante la ritirata. A giugno gli austriaci tentarono di oltrepassare il Piave ma furono sconfitti con gravi perdite. Fu questo l’evento decisivo dell’intero conflitto.
Eppure nel corso di questi cento anni Caporetto ha avuto più risonanza del Piave. Ad esempio, ho contato 234 libri su Caporetto, e sul Piave 61, in buona parte pubblicati subito dopo la fine della guerra..
Questa differenza si spiega, di solito, con l’inveterata tendenza degli italiani di parlare più delle sconfitte che delle vittorie. Ma è una spiegazione solo parziale. Caporetto ha colpito particolarmente l’immaginario collettivo anche perché le cause della disfatta sono tuttora controverse e, per certi versi, restano un enigma. Inoltre, una battaglia difensiva colpisce meno l’immaginario collettivo. Eppure fu proprio la resistenza sul Piave che portò alla crisi dell’esercito austroungarico e determinò lo sfondamento del fronte a Vittorio Veneto quando ormai l’antico Impero era in disfacimento e le varie componenti nazionali avevano proclamato la propria autonomia.
Più che per la vittoria la gente esultò per la fine della guerra: troppi giovani avevano perso la vita e troppi erano tornati a casa mutilati, feriti, duramente provati dagli orrori della guerra.
Poi cominciò il dissidio con gli Alleati: l’Italia esigeva quanto stabilito dal Patto di Londra ma la dissoluzione dell’Austria Ungheria aveva mutato scenario ed era antistorico, oltre che difficile, andare contro il principio di nazionalità. Nacque così il mito della vittoria mutilata. del quale, in poco tempo, si sarebbe impossessato il fascismo.
Oggi, a un secolo di distanza, merita ricordare la capacità di reazione di cui l’Italia seppe dare prova dopo Caporetto. Non solo nella riorganizzazione dell’esercito ma nella produzione industriale, nell’organizzazione di un assetto difensivo e, soprattutto nello slancio morale, nella concordia che per quella circostanza unì il Paese e la classe politica.
Ma bisogna anche ricordare che la guerra poteva essere evitata in Italia e in Europa, che il principio di nazionalità avrebbe finito per prevalere anche senza il ricorso alle armi.
La Grande guerra fu un’immane cataclisma: si parla di quasi 16 milioni di morti tra militari e civili. Di solito, si usa la metafora del Titanic, per dire che dalla belle époque si precipitò nell’abisso : ma fu assai di più. Fu il suicidio dell’ Europa, dove vincitori e vinti furono accomunati dalla desolazione.
La sera del 4 agosto 1914, Il Ministro degli Esteri britannico sir Eward Grey, guardando i lampioni di Withehall, che venivano spenti per il primo oscuramento aereo, disse: “ La luce si sta spegnando in tutta Europa e non la vedremo riaccendersi nel corso della nostra vita”. Quei lampioni oggi sono di nuovo accesi in un’Europa senza frontiere, dove i nemici di allora commemorano insieme i caduti della Grande Guerra. Dobbiamo fare in modo che il sogno millenario di un Europa unita, libera e pacifica non venga mai meno.