Reggio Emilia – A Pavia, durante la guerra. Allora, per noi ragazzi, gli abiti nuovi erano rari in casa nostra. I miei primi abiti con i calzoni lunghi, nel ’44, furono quelli dismessi da mio padre: il primo abito proprio mio lo conquistai dopo la guerra grazie alle stoffe distribuite dall’UNRRA(*). Le scarpe a volte si risuolavano con pezzi di copertone usati delle macchine e, per renderne le suole più resistenti, le si rinforzava con lunette metalliche . Questa abitudine al risparmio, a non sprecare nulla, accentuata in tempo di guerra e di scarsità, mi è rimasta fino ad ora.
In casa mi spettavano piccoli aiuti domestici, come risalire dalla cantina con una pesante latta di carbone – fino a quando lo si poté trovare –, scendere in strada a prendere, dal carrettino che lo forniva, il blocco di ghiaccio per la piccola ghiacciaia; andare in bicicletta a comprare la carne che il macellaio di San Pietro in Verzolo macellava illegalmente, e a una cascina alla Certosa a comprare il latte. La crisi alimentare non fu pesante per la mia famiglia perché i pazienti del papà spesso ci regalavano qualcosa, riso, cacciagione, uova.
La mamma preparava maglie, calze e passamontagna di lana e li portava alla stazione per i soldati che partivano per il fronte russo; Dopo l’occupazione tedesca altri treni con i carri-bestiame portavano i nostri soldati in Germania. A guerra finita la mamma mi raccontò che una volta era riuscita a sbloccare uno dei portelloni in modo che i soldati, in aperta campagna, potessero fuggire. Certo era cosciente del rischio che correva.
Durante la guerra non si viveva solo di ristrettezze e di tragedie; per noi ragazzi la vita continuava, spesso spensierata. Fu in questo periodo che imparai a ballare. Il ballo pubblico era proibito, allora si ballava in casa delle nostre amiche colle canzonette trasmesse dalla radio: Caminito, La Cumparsita,, C’è una strada nel bosco, Rosamunda (mi piace ancoral’accenno alla fata delicata), Limon limonero,la Mazurca di Migliavacca, e così via. La canzonetta custodisce la memoria e aiuta a far riemergere i ricordi del passato.
Il Ponte Vecchio distrutto dai bombardamenti
Della scuola e della guerra ricordo il gran freddo; nell’inverno ’43-‘44, mancando il riscaldamento, si faceva lezione indossando il cappotto e i guanti. Spesso di notte le sirene suonavano l’allarme che segnalava una incursione aerea; allora si scendeva nel rifugio, ossia nella cantina dove le strutture in pali e assi di legno avrebbero dovuto proteggerci dal crollo dell’edificio. Ma noi non eravamo in città quando ci furono i bombardamenti più pesanti, che distrussero i tre ponti sul Ticino e le casette lungo le rive del fiume.
Nel terz’anno, avvicinandosi la sconfitta dei tedeschi, nel Liceo si formò un gruppo di studenti che aderirono a Giustizia e Libertà(°); distribuivano manifestini antifascisti, ma mi tennero fuori perché troppo giovane. Un nostro compagno, Albo, si era invece arruolato volontario con i fascisti. C’era fra noi anche uno che sosteneva la Repubblica di Salò, Perotti, un ragazzo mite, forse figlio di un piccolo gerarca repubblichino; fu composta per lui una parodia dell’inno di Carducci (Sta Federico imperatore in Como …) che si concludeva con l’intimazione: Via cacciam Perotti! Ma i rapporti con il ragazzo restarono amichevoli nonostante le sue convinzioni.
I tempi peggiori, in tutti i sensi, vennero con l’occupazione tedesca.
I quattro colpi della Quinta annunciavano Radio Londra che, tra sibili e scricchiolii, informava sulle batoste della ancor poderosa Wehrmacht; la si ascoltava con mille precauzioni.
Lo zio Aligi, avvocato, fu arrestato perché volevano sapere dove si nascondesse suo cognato, antifascista legato al Partito Liberale clandestino. Giorni di angoscia, perché era costante il rischio di deportazione o di esecuzioni indiscriminate. Poi, non so come, fu liberato. Dopo la Liberazione fu nominato nella Giunta comunale, per il Partito Socialista, Assessore per i lavori pubblici; respingeva rigorosamente le inevitabili raccomandazioni e, quando qualcuno per ingraziarselo gli portava a casa una bottiglia d’olio o del burro, imponeva la restituzione immediata, nonostante le proteste della moglie.
Il papà nell’ultimo periodo della guerra partigiana è stato responsabile dei servizi medici ed è stato presente alla resa dei tedeschi della zona, in Prefettura, come socialista, per conto del Comitato di Liberazione. Ricordo i soldati tedeschi che si ritiravano marciando su due file ai lati della strada.
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Alla fine della guerra la passione per il ballo divenne generale; si ballava anche nelle piazze. Noi ragazzi andavamo nello spiazzo della Caser, la fabbrica di macchine-utensili del papà di un mio amico, dove era installato un altoparlante e ballavamo con gli operai e le operaie. Finita la guerra, trovammo un deposito di materiale bellico incustodito che rovistammo con curiosità. Ci impadronimmo di candelotti di dinamite e di inneschi e ci improvvisammo sabotatori. L’esplosione veniva da noi provocata alimentando l’innesco con la corrente della dinamo di una bicicletta; collocammo la dinamite sul lato di un argine e ci riparammo sull’altro lato, ma fu una delusione, un botto modesto. Evidentemente un piccolo quantitativo di esplosivo, a cielo aperto, non poteva scavare un cratere: per nostra fortuna.
“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”. (Dal discorso in cui Sandro Pertini proclama l’insurrezione generale a Milano, il 25 aprile 1945.
Dell’atmosfera dei giorni dopo la Liberazione ricordo il senso di euforia e di grande attesa per le prospettive che si aprivano di un nuovo mondo, libero e giusto. Uscivano molti giornali, di poche pagine, e noi, inizialmente, li compravamo tutti.
In città non assistemmo a molti atti di violenza; ricordo un repubblichino preso a pugni e calci, e due ragazze, che erano state nel corpo delle Ausiliarie e che se la facevano con i tedeschi, rapate a zero e insultate. Di altre vere violenze si seppe più tardi.
Con la fine delle ostilità si affrontava anche qualche viaggio a ritrovare parenti e amici. Non era agevole, sui carri bestiame forniti di qualche panca, o anche seduti in terra; molti ponti erano distrutti, così si attraversavano i fiumi con i traghetti.
Dopo di allora, per molti anni e fino ad ora ho partecipato alla commemorazione del XXV Aprile sfilando in corteo con mia moglie Anna, poi con i figli piccoli in collo, infine con i nipoti.
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Ora non trovo modo migliore per ricordare la Liberazione che riprendere – come ho fatto già anni fa – qualche brano dalle lettere dei condannati a morte nella Resistenza; le lessi con commozione anche ai miei figli. Penso che pochi fra i giovani le conoscano, e vale proprio la pena di non dimenticare chi ha offerto il suo sacrificio per tener fede ai suoi ideali, aprendo così la strada alla rinascita del nostro Paese dalle macerie del fascismo.
Piazzale Loreto: i corpi dei quindici partigiani uccisi dai fascisti il10 agosto 1944
Arturo Gatto, impiegato, 36 anni, fucilato nel settembre 1944 con i compagni del Partito d’Azione di Bologna: “Topolino mio caro, è il tuo papà che ti scrive, il tuo papà che ti ho voluto tanto bene. Non mi rivedrai più Mary, ma non dimenticarmi. …. Il tuo papà non piange, non piangere anche tu. …. Ti abbraccio forte e ti bacio.”
Eusebio Giambone, linotipista, 41 anni, comunista, fucilato nell’aprile 1944; medaglia d’Oro al valor militare: “Cara adorata Luisetta, …. Sono calmo, non avrei creduto che si potesse guardare la morte con tanta calma, non indifferenza, che anzi mi dispiace molto morire …. In questo momento rivedo come se li vivessi i ventuno anni del nostro grande amore, amore che si è confuso e rinnovato nei nostri figli. …. Sii forte per te, per Gisella, sono certo che lo sarai, come sono certo che vedrete il mondo migliore per il quale ho dato tutta la mia modesta vita.”
“Cara Gisella, quando leggerai queste righe il tuo papà non sarà più. …. Il tuo papà è stato condannato a morte per le sue idee di Giustizia e di Eguaglianza. … Il tuo papà che ti ha amata immensamente ti abbraccia”
Paolo Lomasto, 17 anni, partigiano, fucilato nel giugno 1944: “Carissima mamma, ti scrivo queste mie ultime parole dalla mia cella dove ho trascorso le mie ultime ore contento, rassegnandomi a morire pensando a te e al mio piccolo nipotino e alla mia sorellina; quando tornerai alla nostra bella Napoli mi bacerai tanto papà e gli dirai che sono morto per l’Italia.”
Alberto Marchesi, 43 anni, commerciante, comunista, fucilato nel marzo 1944: “A mio figlio Giorgio. Abbi cura e stringiti a mamma. Tuo papà Alberto che non rivedrai più.” (inciso sul muro della cella di Via Tasso a Roma (^) ).
Irma Marchini, 33 anni, casalinga, comunista, fucilata nel novembre 1944: “Mia adorata Pally, sono gli ultimi istanti della mia vita. ….Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui … fra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto mi era possibile affinché la libertà trionfasse. Baci e baci dal tuo e vostro Paggetto. Vorrei essere seppellita a Sestola”.
Salvatore Martelli Castaldi, 47 anni, generale di brigata aerea, ucciso alle Fosse Ardeatine nel marzo 1944, Medaglia d’oro al valore militare: “Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta. Fa che possa sempre essere di esempio” (scritto sul muro della cella di Via Tasso)
Aldo Mei, 32 anni, sacerdote, fucilato nell’agosto 1944: “Il Breviario a mio fratello Natalino, invocando dal Signore che sia Apostolo di Carità, anche per supplire a quello che non ha fatto in questo caso il povero sottoscritto. Affezionatissimo fratello Sacerdote Aldo. …. Ad Almerico e agli altri carissimi tutti di casa non ho, in questo momento solenne, nulla da lasciare, all’infuori di un immenso amore fatto sublime nella solenne aspettativa della morte.”
Roberto Ricotti, 22 anni, meccanico, comunista, fucilato nel gennaio 1945: “Tu che mi hai dato le uniche ore di felicità della mia povera vita …. A te io dono gli ultimi miei battiti d’amore. Addio Livia, tuo in eterno …”.
“ Parenti cari consolatevi, muoio per una grande idea di giustizia… Il Comunismo!! Coraggio addio!”
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I dati sulle perdite durante la guerra di Liberazione sono incerti. Secondo le fonti più attendibili i caduti per la Resistenza italiana, in combattimento o uccisi a seguito della cattura, sono stati circa 45.000; altri 20.000 sono rimasti mutilati o invalidi. Le donne partigiane combattenti sono state 35 mila; oltre 4000 di loro furono arrestate e torturate, quasi 3000 furono fucilate o impiccate; 19 vennero decorate con la medaglia d’oro al valor militare. I patrioti civili uccisi per rappresaglia risultano quasi 10000. I militari della Repubblica Sociale italiana morti nello stesso periodo sono stati circa 13000, circa 2000 nelle Brigate nere, ma il dato è incerto.
Nei mesi seguenti l’insurrezione si verificarono esecuzioni sommarie di fascisti, collaborazionisti, e anche di esponenti delle classi sociali conservatrici e anticomuniste. Una forte componente di “lotta di classe” fu presente durante tutta la Resistenza, soprattutto nelle formazioni garibaldine. Il numero degli uccisi di parte fascista dopo il 25 aprile è incerto; si va dalle 1.732 persone uccise nell’immediato dopoguerra, dichiarate nella seduta parlamentare dell’11 giugno 1952 dal ministro dell’Interno democristiano Mario Scelba, a un numero di morti compreso tra 10.000 e 15.000, dichiarato nel 1948 al Senato da Ferruccio Parri, ai 34500, secondo Giorgio Pisanò, senatore del Movimento Sociale Italiano. Gli storici oggi valutano che i morti fascisti o simpatizzanti siano stati 10-12.000.
(*) La United Nations Relief and Rehabilitation Administration era un’organizzazione delle Nazioni Unite, istituita per assistere economicamente i Paesi usciti gravemente danneggiati dalla seconda guerra mondiale
( °) GL era il gruppo politico che, dopo i comunisti,diede il contributo maggiore alla guerra partigiana; dopo la guerra diede vita al Partito d’Azione
(^) Via Tasso è la strada dove aveva sede il comando della polizia nazista di Roma e ufficio il colonnello Herbert Kappler, poi condannato per l’orrore delle Fosse Ardeatine. In via Tasso venivano interrogati e torturati i partigiani, gli antifascisti, gli ebrei.