Firenze – 110 anni fa, il 3 ottobre 1911, le truppe italiane sbarcavano in Libia per acquisire un possedimento coloniale sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma il 23 ottobre quella che era ritenuta una facile conquista si rivelò invece l’inizio di una guerra lunga e cruenta.
A Sciara Sciat, un quartiere periferico dell’oasi di Tripoli, le truppe turche che, di fronte agli sbarchi italiani, si erano ritirate, passarono al contrattacco con il decisivo apporto di guerriglieri arabi. I reparti italiani evitarono la rottura del fronte e mantennero il controllo del territorio costiero. Ma quella che si credeva una facile conquista divenne un’ impresa irta di difficoltà e con alto numero di perdite.
Ma come ebbe origine questa infausta avventura coloniale?
Dopo la disfatta di Adua (1898), l’orgoglio nazionale italiano era stato ulteriormente mortificato, agli inizi del XX secolo, dal Protettorato francese sul Marocco. I nazionalisti cominciarono allora, a puntare gli occhi sulla Tripolitania e la Cirenaica, l’unico territorio del Nord Africa di cui gli europei non si erano ancora impadroniti.
Si assisté a una campagna di stampa che poggiava su due capisaldi: 1) La Libia era una terra ricca e gli italiani non sarebbero stati più costretti a emigrare in Sud America, tanto più che in Libia vivevano già molti nostri connazionali 2) se fosse caduta in mano alla Francia, alla Gran Bretagna il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo ne sarebbe risultato compromesso.
Si sosteneva poi, che la conquista sarebbe stata poco più di una passeggiata militare, perché l’Impero ottomano non era interessato a quella lontana provincia.
Insomma, una terra vicina, scarsamente popolata e fertile, appariva davvero “La nostra Terra promessa” come s’intitolava un libro di Giuseppe Piazza che divenne un best seller. Così, ignorando quanti affermavano che la Libia era una terra povera e avrebbe avuto bisogno d’investimenti che l’Italia non era in grado di sostenere, vari opinionisti calcarono la mano sulle ricchezze minerarie che la popolazione locale non sfruttava, sugli oliveti, i vigneti, le palme da datteri, Si citavano spesso autori latini e greci testimonianze antiche di venti-venticinque secoli.
C’erano, peraltro, molte voci contrarie, a cominciare dai socialisti: e non solo in nome di un’ideologia anticolonialista ma anche perché si riteneva che la Libia non avrebbe dato terra coltivabile ai contadini (uno “scatolone di sabbia” la definì Salvemini).
Cesare Lombroso, nell’ articolo Il pericolo tripolitano, affermò di temere che inebriata dalla vittoria, l’Italia avrebbe potuto rivolgersi verso l’imperialismo e il militarismo (cfr. S. Romano, La quarta sponda, Milano 2005 p. 28).
Intanto, si controbatteva che se i francesi o tedeschi si fossero impadroniti delle miniere di zolfo, avrebbero fatto concorrenza a quelle siciliane; circa la fertilità del terreno, si prevedeva che il lavoro italiano avrebbe fatto miracoli.
E Giolitti? Si volgeva a destra dopo essersi spostato a sinistra con la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e forse non si voleva contrapporre all’ondata crescente di nazionalismo.
Intanto, mentre di cantava Tripoli bel suol d’amore gli italiani erano suggestionati da quanti parlavano di immensi frutteti e di due milioni di palme da datteri nelle oasi. Per di più, si sottolineava che questa sorta di Eden era a portata di mano perché l’Impero turco era in piena decadenza e la popolazione araba attendeva di essere liberata. Poi, quando testimoni diretti ribattevano che in Libia la popolazione era ostile agli occidentali, si mutava versione e si parlava del dovere di aiutare i coloni italiani minacciati dal sentimento xenofobo.
Ad accrescere la pressione sull’opinione pubblica furono le narrazioni delle difficili condizioni dei nostri emigranti. Il giornalista e scrittore Giuseppe Bevione sottolineò che l’Italia avrebbe potuto dare loro una nuova patria sulle sponde del Mediterraneo.(P. Maltese, La Terra promessa La guerra italo-turca e la conquista della Libia 1911 – 1912, Milano 1976 p. 44). In realtà – rilevarono vari oppositori – le terre migliori erano tutte coltivate e in queste zone c’era un’alta densità di popolazione; quindi, non sarebbe stato possibile ottenere concessioni per gli italiani.
Eppure, il nazionalista Enrico Corradini parlava di immense aree coltivabili. Ne L’ora di Tripoli citava Erodoto come testimone che l’altopiano della Cirenaica era letteralmente coperto di grano e d’orzo. E soprattutto, si ricordava che quelle terre facevano parte dell’ Impero romano.
La pressione dei nazionalisti divenne parossistica: si sosteneva che alcune carte britanniche includevano nei loro possedimenti la Libia orientale e che i francesi, sconfinati dalla Tunisia, si erano già impossessati di oasi importanti. L’ultimo grido di allarme fu il timore che i coloni italiani abbandonassero la Libia e venissero ad aumentare il numero dei disoccupati.
Constatando che la campagna dei nazionalisti aveva ormai coinvolto strati sempre più ampi dell’opinione pubblica, Giolitti cavalcò la tigre. Rifiutò le proposte concilianti del governo turco e rispose che poiché nelle province libiche regnava il disordine, gli italiani avrebbero occupato i territori della Tripolitania e della Cirenaica.
Invano la Sublime Porta si mostrò remissiva e concesse all’Italia di governare la Libia dietro il riconoscimento di una sovranità nominale turca.
Il 29 settembre, dopo la formale dichiarazione di guerra, la flotta italiana iniziò il cannoneggiamento di Tripoli. Il 5 ottobre le prime truppe sbarcarono senza incontrare resistenza perché la guarnigione turca si era ritirata nell’interno. La spedizione cominciava in un clima di festa; in Italia si cantava che i turchi “ nun so’ boni ‘e tené manco una luna / e ne tèneno mezza solamente” (Maltese, La Terra promessa,cit.).
Si parlò di un rapporto paterno con la popolazione locale. Ma l’8 ottobre i turchi ricomparvero sulle dune. Si scavarono trincee ai margini dell’oasi che era un labirinto di case e di orti recintati, un terreno difficile da controllare. Il maggior pericolo veniva, però, dai guerriglieri arabi che sbucavano dal nulla. E dopo Sciarra-sciat, Il clima mutò radicalmente: iniziarono le perquisizioni le fucilazioni, l’internamento di arabi ritenuti pericolosi.
Fece seguito la deplorazione dell’opinione pubblica internazionale che suscitò indignazione in Italia. Nessuno, infatti, aveva protestato per le repressioni operate dai francesi e dagli inglesi nelle loro conquiste coloniali. Ma questo era avvenuto alcuni decenni prima. Ormai si era nel XX secolo e c’era una nuova sensibilità per i diritti umani. Per di più, la Turchia era uno Stato con un ordinamento di tipo europeo e anche i paladini della superiorità dell’uomo occidentale non potevano parlare di “barbari da civilizzare”.
La delusione più grande fu, però, l’atteggiamento della popolazione locale che non aveva accolto gli italiani come liberatori. Così, dopo Sciarra Sciat si passò dalla benevolenza alla repressione; gli arabi furono considerati “traditori” mentre, ad essere tradite erano state le attese indotte da una campagna di comunicazione a senso unico. Utopie di una Terra promessa fatte balenare da ambienti governativi e dai nazionalisti per mascherare una spregiudicata impresa coloniale.
Foto: Regia Marina in Libia, 1911 – Wikipedia