Bagno a Ripoli (Firenze) – Riconoscere il denaro delle mafie è la sfida del prossimo millennio. Sembra quasi una battuta, ma non lo è affatto: fra capitali che vanno e vengono agganciati a giri internazionali di finanza e banche, che si muovono fra Usa ed Europa, fra Cina e Russia, comprendendo tutto il globo senza nessun ostacolo per quanto riguarda razza, religione o politica, i passaggi sono così numerosi, incrociati e variegati che davvero è sempre più difficile per gli uomini della legalità (magistrati in primis), riconoscere il denaro per quello che è, scorgere il sangue che lo macchia attraverso complicate spirali di investimenti e reinvestimenti e lavaggi. A dirlo, non uno qualsiasi ma Piero Grasso, uomo di prima linea nella lotta contro le cosche, attuale presidente del Senato, soddisfatto e speranzoso che infine la legge sulla prescrizione “che attendo da anni” vada in porto. E il luogo in cui queste parole vengono pronunciate non potrebbe essere più simbolico e pregnante di così: Antico Ospedale del Bigallo, appena fuori da Bagno a Ripoli, Firenze, in “casa” della Fondazione Antonino Caponnetto, davanti a una platea sterminata, con le “navette” che fanno incessantemente la spola, giornalisti e fotografi accucciati davanti alle prime file per non perdere l’evento e le parole, e fior fiore di gente che della lotta alle mafie ha fatto un imperativo prima di tutto etico: oltre a Piero Grasso, Salvatore Calleri, presidente della Fondazione e in squadra con Rosario Crocetta, presente anche lui, Rosy Bindi e tanti tantissimi magistrati, esponenti di associazioni anti mafia, testimoni, il sindaco di Bagno a Ripoli e padrone di casa Francesco Casini.
Ma il vero protagonista è il pubblico in una sala così gremita che bisogna fare i turni per stare dentro in piedi, lì ad ascoltare parole che, sebbene la folla tutta insieme sembri darsi coraggio, sono terribili, anzi, “terribilissime”. Perché? Il primo assaggio è quello di Grasso. La mafia riesce a confondere e cambiare persino i confini territoriali dei territori, influenza le guerre, decide i conflitti, si aggancia a tutto ciò che si muove e vive come una malapianta, un cancro indefesso che lavora per succhiare economie e di conseguenza politiche. Perché se una cosa la sappiamo e conosciamo ormai da decenni, vale a dire che per riconoscere e sconfiggere le mafie “bisogna seguire i soldi”, qualcosa ancora, ed è questa l’impressione generale, sfugge. Qualcosa che forse ancora non è stato detto, e che rimane dietro a ciò che di pur intelligente e motivato viene rimarcato, nelle parole di coloro che ieri hanno riassunto cosa è e come si muove la lotta alla mafia, qui e ora.
Una delle analisi più inquietanti ma anche più reali nella sua spietatezza la fa un giovane magistrato impegnato in prima linea, Catello Maresca, che analizza il problema visto sotto il profilo di “sistema”. Insomma, si tratta di un vero e proprio “sistema” economico, dice il giovane magistrato: un sistema che ha i suoi stipendiati, i dipendenti, che paga dunque stipendi e non solo, che consente anche la vita di una vera e propria struttura “assistenzialistica”. Insomma, un sistema di “parastato” verrebbe da pensare. E infatti, oltre a essere veri e propri “stipendiati”, gli uomini delle cosche godono anche di una vera e propria “indennità di malattia” che coinvolge l’intera famiglia. Vale a dire, quando il dipendente del “sistema” incorre in “malattia”, cioè viene arrestato e finisce in carcere, si attiva imediatamente questa sorta di indennità che permette a lui e all sua famiglia di campare oltre al vera e propria attività di “lavoro”. Ciò significa, beninteso, che una volta uscito il dipendente nutre una profonda fedeltà per il sistema che consente a lui e ai suoi di sfangarla in tempi in cui non può lavorare. E dunque, spiega Maresca, se questo così funziona, il metodo più sicuro per mettere in crisi il sistema è quello di privarlo della sua capacità di “pagare” gli stipendi, ovvero, assalirlo a livello patrimoniale. Una cosa facile a dirsi e difficile a farsi, non tanto per l’incapacità degli uomini dello stato di “aggredire” con sequestri i patrimoni mafiosi (12mila beni immobili sequestrati e quasi duemila aziende) ma, almeno per ora, con risultati miserrimi: il 95% delle imprese sequestrate alle cosche fallisce quando va in mano allo stato. I motivi? In buona sostanza per il magistrato, c’è un porlbema di vuoto strutturale: vale a dire, l’impresa esiste efunziona nel momento in cui esiste un imprenditore. Se non c’è imprenditore, non c’è impresa. Dunque, quando una impresa passa dalla mafia allo stato, la prima cosa da chiedersi è: ci sono le condizioni per andare avanti nella storia dell’impresa? La reponsabilità dell Stato è enorme, dal momento che far fallire l’azienda che dava lavoro magari a livello alocale significa 9n porspettiva rmettere in pista la mafia come soggetto in grado di creare occupazione, mentre lo Stato perde una battaglia fra le più importanti, quella della credibilità. La lotta patrimoniale, conclude Marseca, passa sì attraverso il sequestro, ma anche (e forse soprattutto) il recupero. Ed è questa la sfida del Terzo Millennio.
Anche il presidente della commissione parlamentare Rosy Bindi mette l’accento su questo punto, e sulla necessità di ottenere l’attenzione vigile dell’Europa. “Che non si faccia lo stesso sbaglio dell’Italia” dice profetica, pensando ai tempi in cui l?Italia del nord e del Centro pensava lla mafia come a un problema del Sud che non toccava le proprie aree, tranne poi svegliarsi di colpo e trovarsi avvinti dalle spire della Piovra. Una dimensione, quella europea delle cosche, che richiede, ribadisce Bindi, una dimensione altrettanto europea (e internazionale) di risposta repressiva e non solo. Infatti, il problema delle mafie è un problema che si aggancia, come conclude Rosario Crocetta, con qualcosa di ancora più ampio, che è vero che cresce e si consolida sul terreno dell’economia, ma che prolifera anche e soprattutto nella cultura, nell’atteggiamento della società. E’ qui, dice Crocetta, che bisogna snidarla, la Piovra, e distruggerla. Nei comportamenti e nella testa delle persone, e delle classi politiche. Altrimenti, aggiungiamo noi, il resto è una buona battaglia che tuttavia non riesce mai a concludersi.
Ed ecco le sue parole: “Cosa è la mafia? Io non dico le mafie perché al di là dell’organizzazione delle cosche la mafia è un fenomeno unitario. Non c’è consiglio comunale in Sicilia, Calabria o Campania senza infiltrazioni mafiose. Almeno uno c’è. Ora purtroppo le infiltrazioni sono anche in alcuni consigli comunali del Nord. Impossibile in Italia licenziare i funzionari coinvolti in inchieste di mafia. Possiamo fare le leggi più belle del mondo, ma è la società che non è sana, purtroppo anche dentro le istituzioni. Occorre un profondo riscatto morale per uscire da questo incubo”.