Governo europeo: Meloni stretta fra l’irrilevanza e l’incoerenza

Trattative fino al 18 luglio quando la palla passerà al Parlamento europeo

Il sipario sulla scena del nuovo Consiglio europeo si è chiuso nella notte tra il 27 e il 28 giugno a Bruxelles, con l’accordo sulle principali cariche, i cosiddetti ‘top jobs’. I numeri hanno pesato molto, più dei ‘venti’ che soffiavano da destra stavolta. Succede in ogni democrazia, quando si ingarbuglia tutto, alla fine i numeri dettano legge. E così il Ppe, primo partito con i suoi 190 seggi conquistati e il Pse, secondo con 136, si rialleano con i liberali (80 seggi) e ripropongono l’alleanza uscente, dando le carte: Ursula von Der Leyen ancora presidente della commissione, Roberta Metsola ancora presidente del Parlamento europeo,  l’ex premier socialista portoghese Antonio Costa è il nuovo presidente del Consiglio europeo, la prima ministra liberale estone Kaja Kallas è l’alta rappresentante Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza.

 Dei 27 leader europei solo due dicono no alle nuove nomine: uno è il leader ungherese Viktor Orban che boccia Von der Leyen, ma si astiene su Costa  e vota sì alla Kallas. L’altra è la premier Giorgia Meloni che lo supera, assestando due no a Costa e Kallas e astenendosi su Von der Leyen, con in testa altri giochi che farà valere nella seconda e più importante fase dei negoziati. Posizione drastica e inedita che, per la prima volta,  ha tenuto fuori l’Italia, paese fondatore, non solo dalle scelte finali  ma anche dai negoziati pre-Consiglio, dove Meloni non è stata neanche invitata.  C’è poi l’imbarazzo che l’altro leader dei conservatori in Consiglio europeo, il premier ceco Petr Fiala, ha invece dato tre sì alle nuove nomine marcando una distanza con Meloni. Non solo, la delegazione del partito polacco Giustizia e sviluppo (Pis) guidato da Mateusz Morawiecki potrebbe uscire da Ecr per buttarsi più a destra, cosa che farebbe perdere  il terzo posto ai conservatori ma in compenso potrebbe rendere più potabile  una possibile alleanza con il Ppe.

L’ inedita posizione dell’Italia, ‘isolata’, ‘marginalizzata’, ‘irrilevante’, come sottolineano commentatori e politici di opposizione, ha avuto il primo suggello formale nella notte di Bruxelles, quando Meloni, concedendosi ai cronisti visibilmente affaticata, ha sintetizzato: “La proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i nuovi vertici europei è sbagliata nel metodo e nel merito. Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni”.

L’amarezza e la scelta di restare temporaneamente fuori dai giochi, Giorgia Meloni le aveva già consegnate alla Camera il 27 giugno: “La logica del consenso, su cui si sono sempre basate gran parte delle decisioni europee, viene scavalcata dalla logica dei caminetti nei quali alcuni pretendono di decidere per tutti, sia per quelli che sono della parte politica avversa, sia per quelli di nazioni considerate troppo piccole per essere degne di sedersi ai tavoli che contano. Questa è una sorta di ‘conventio ad excludendum’ in salsa europea che a nome del Governo italiano ho apertamente contestato e che non intendo condividere”, ha detto nel corso delle comunicazioni in vista della riunione del Consiglio europeo. Ma più che le sue parole, l’immagine di Meloni con a fianco i due vice, in guerra l’uno contro l’altro, ha reso icastica la difficoltà della maggioranza di governo italiana sulla partita europea: da una parte Matteo Salvini che, dal ‘basso’ dei suoi risicati otto seggi a Bruxelles vuol buttare all’aria tutti i tavoli e grida al colpo di Stato, dall’altro Antonio Tajani, che deve avallare le scelte del Ppe di cui è anche vicepresidente e giura che riuscirà a far valere l’apertura a destra per includere i conservatori nella nuova maggioranza europea ed escludere i Verdi.

I socialisti pongono il veto esattamente contrario.  Elly Schlein, forte di avere portato il Pd ad essere la prima delegazione dentro al gruppo europeo, è intenzionata a far valere il proprio peso: “Per noi è un ‘no go’, per noi non si può fare nessuna alleanza con i conservatori e questo l’abbiamo chiarito insieme a tutta la famiglia socialista”, ha detto al pre-Council meeting del Pse a Bruxelles.

Meloni è nel mezzo, nella schizofrenia di vestire i panni della presidente del Consiglio italiana che impongono un certo gioco e quelli della leader di Ecr e paladina delle destre che impongono un altro gioco e altri toni. 

La deputata Pd Anna Ascani glielo sottolinea ammonendola: “Se sei presidente del Consiglio fai gli interessi del tuo Paese, non della tua parte politica. Sono partiti da meno Europa in Italia, hanno incassato meno Italia in Europa. Patrioti a parole”.

Queste sono le acque tempestose in cui naviga Giorgia Meloni, stretta fra ‘l’irrilevanza’ di restare all’opposizione o ‘l’incoerenza’ di scendere a patti con i socialisti, dopo aver giurato che mai e mai.  Intanto conta sulla partita che si apre ora, la più importante, con quell’astensione che le consentirà mani libere per giocare su più tavoli.  Sì, perché ancora non è finita. Chiuso il sipario sulla scena del Consiglio europeo si animano i retroscena con negoziati e trattative a tutto campo fino al 18 luglio quando la palla passerà al Parlamento europeo, chiamato a  ratificare con voto a scrutinio segreto le scelte prese  in Consiglio.

L’Italia, marginale nella prima fase delle nomine, potrebbe farsi valere politicamente nel secondo tempo e sarà difficile ignorare che Giorgia Meloni è stata l’unico premier in Europa a vincere abbondantemente le elezioni portando a Bruxelles 25 degli 83 deputati del suo gruppo, posizione che non le ha risparmiato l’isolamento ma che potrà rivendicare nella partita che si gioca ora. Del resto ha già avuto le sue soddisfazioni, con l’ex primo ministro olandese Mark Rutte e neo segretario generale della Nato che considera “assolutamente accettabile che l’Italia abbia una posizione differente”.

Il problema di Ursula Von der Leyen è più complesso,  può contare su una maggioranza risicata di soli 38 seggi e non le può bastare, considerato un 10 per cento quasi fisiologico a Bruxelles di franchi tiratori, che impongono maggioranze ben più ampie per avere una navigazione tranquilla. La presidente della commissione in pectore dovrà quindi aprire serrate trattative con i conservatori di Meloni da una parte e i Verdi dall’altra per racimolare altri voti salvifici, dribblando i veti incrociati che avvelenano il negoziato. E qui se la gioca Meloni, con gli odiati caminetti che la possono rilanciare sulla partita dei commissari e delle vicepresidenze, su cui per ora trapela solo che è in pole position il ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto. Lei farà valere anche i buoni rapporti personali con Ursula Von Der Leyen che non ne fa mistero, sottolineando le sintonie con la premier italiana soprattutto in materia di immigrazione.

Per la ex ministra di Merkel la strada è quindi strettissima perché anche quando i numeri danno ragione, la politica può mettersi di traverso, e Meloni l’aspetta a questo varco.  Le destre avanzano ma non vincono, l’Unione europea sembra un fortino assediato che ancora resiste arroccandosi sulle confortevoli formule del passato, ma è fragile e può saltare.

Verdi ed Ecr agitano i sonni di Ursula Von Der Leyen chiusa nel dilemma e nei veti incrociati. E Giorgia Meloni qui è centralmente in campo, ha venti giorni di tempo per giocarsela e un’ottantina di europarlamentari da mettere sul piatto. La sostiene anche il suo vice e ministro degli Esteri Tajani che, a sua volta, naviga in acque complicate, nel Ppe diviso fra chi vuole aprire ai Verdi e chi ai Conservatori. Meloni è su un bivio:  può uscirne ago della bilancia o condannarsi all’irrilevanza e alla solitudine.

In foto Giorgia Meloni

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